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Perché i Consigli Pastorali

E’ noto che uno dei cardini su cui si impernia la visione programmatica di papa Francesco è la sinodalità cioè il “camminare insieme” del pastore e dei fedeli a lui affidati, nello stile della comunione, sia per il discernimento che per la promozione delle più opportune attività pastorali. Ora è indubbio che lo strumento più concreto ed efficace di una autentica sinodalità non sono certo gli incontri a senso unico in cui qualcuno parla e tutti altri ascoltano, ma gli organismi di partecipazione che consentono di affrontare collegialmente, in uno spirito di fraterna condivisione e di corresponsabilità fra pastore e fedeli, le questioni che oggi si pongono in vista di quella conversione missionaria della Chiesa insistentemente sollecitata dal Papa.

E’ vero che il Codice di diritto canonico, promulgato 35 anni fa, ha recepito troppo timidamente  la nozione conciliare della Chiesa come popolo di Dio, lasciando alla facoltà del Vescovo la creazione o  meno dei Consiglio Pastorale diocesano e di quelli parrocchiali, ma il Pontefice esplicitamente afferma, nella Evangelii gaudium: “ Il Vescovo…nella sua missione di favorire una comunione dinamica, aperta e missionaria, dovrà  stimolare e ricercare la maturazione degli organismi di partecipazione proposti dal Codice di diritto canonico”. (n.31)  Dunque si tratta di un dovere e non  più di una scelta ad libitum, se si intende tener conto fedelmente  dell’indicazione di papa Bergoglio, ribadita pure tre anni or sono nel suo intervento al Convegno Nazionale di Firenze della Chiesa italiana.

Se allora tali Consigli Pastorali non vengono neppure costituiti, ma anche se non operano secondo regole statutarie chiare, se vengono convocati raramente, se i loro lavori non sono ben programmati e proficuamente condotti, la sinodalità in quella diocesi o in quella parrocchia latita vistosamente.

Certo è impegnativo curare il buon funzionamento di questi organismi, senza timore di un franco confronto, programmandone e guidandone i lavori con saggezza e disponibilità all’ascolto, così da evitare che essi, anziché operare utilmente nell’analisi dei problemi pastorali e nell’adozione delle più idonee iniziative per affrontarli, si riducano a occasioni di chiacchiere inconcludenti o peggio a tribune per sterili polemiche.

Tuttavia è evidente che, senza partecipazione e sostanziale coinvolgimento anche dei fedeli laici, si può scadere facilmente in un clericalismo improduttivo e deteriore che, come denuncia il Papa, li “mantiene ai margini delle decisioni”. (n.102)

Pier Giuseppe Levoni

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  1. È indubbio che lo strumento più concreto ed efficace di una autentica sinodalità sono gli organismi di partecipazione. Io vorrei aggiungere che questi organismi possono funzionare a due condizioni: quando c’è volontà di dialogo e si assumono le condizioni perché il dialogo sia vero. La volontà di dialogo suppone che chi ha responsabilità di comando – vescovo, parroci, ecc. – non ritenga di sapere già tutto e pensi sia appena un intralcio ascoltare chi, in qualche modo, è estraneo alle decisioni da prendere. Questa prima condizione, in un contesto abbastanza clericale come il nostro, non è così frequente.
    Quanto al dialogo in sé, richiede capacità di ascoltare e capire il proprio interlocutore, senza attribuirgli pensieri e intenzioni a lui completamente estranei. Purtroppo, molto spesso si ascolta quasi per un dovere di educazione, con la convinzione di sapere già quanto l’altro sta per dire, desiderosi appena di poter prendere la parola al più presto per dare la propria risposta, che già in anticipo si ritiene adeguata e indiscutibile. A questo punto, il “dialogo” continua appena come sforzo per convincere l’altro della giustezza delle proprie ragioni. Così, però, anche se si raggiunge un accordo, i frutti veri del dialogo – un maggiore coinvolgimento in un progetto comune, un arricchimento reciproco, una maggiore creatività e una vera comunione – diventano impossibili.

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