Ho apprezzato il recente pezzo di Saverio Catellani, che riflette con parresìa sul prossimo Sinodo, riallacciandosi alle vicende del mancato sinodo locale carpigiano di una ventina di anni fa. L’autore parla, a buon diritto, di un cammino incerto, e staremo a vedere se anche stavolta si confermerà la tradizionale difficoltà di camminare insieme (dall’etimologia del termine sinodo) da parte dei cattolici italiani (e, nello specifico, carpigiani).
Si tratterà in realtà, per quello che avrà inizio tra poche settimane, il 17 ottobre, di un cammino sinodale, come l’hanno definito i vescovi nella loro LXXIV Assemblea generale, svoltasi a Roma dal 24 al 27 maggio scorsi: ma la scelta lessicale non è una diminutio rispetto a sinodo, rimandando tale locuzione a uno stile, una metodologia, un atteggiamento ecclesiale, ben più di quello che, nel caso peggiore, potrebbe risultare anche solo un mero adempimento burocratico. Il titolo programmatico, Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita, è quasi obbligato, vista la situazione, causata dalla pandemia tuttora in corso ma non solo da essa.
Va detto che la posta in gioco è davvero alta. Anche perché, almeno per ragioni anagrafiche, del futuro cammino sinodale potrà presuntivamente sentirsi partecipe per l’ultima volta in un’esperienza ecclesiale di rilievo una generazione ancora in grado di fare riferimento al Vaticano II con qualche cognizione di causa, avendone udito i racconti dai diretti protagonisti e avendo respirato un po’ dell’atmosfera unica di quell’assise epocale iniziata ormai quasi sei decenni fa. Una generazione che – forse – può ancora scaldarsi il cuore su temi (come le riforme ecclesiali) che alla stragrande maggioranza dei giovani connazionali probabilmente appaiono sospesi fra l’astruso e l’insensato: eppure, ovvio, il coinvolgimento di questi ultimi in qualche modo nel processo sinodale resta vitale.
Ritengo che la domanda sottesa a tale processo, sull’identità della Chiesa e su cosa significhi essere Chiesa oggi, vada declinata nell’unica modalità possibile e sensata: non rassegnandosi a contemplare il proprio ombelico né cimentandosi in analisi autoconsolatorie, com’è capitato in un recente passato (penso al convegno ecclesiale di Verona nel 2006), bensì misurandola sui suoi modi di relazionarsi con il mondo esterno, con quell’alterità che ormai ci abita e ci mette in crisi e non di rado ci inquieta, con la vasta porzione di Paese che non solo ha smarrito il senso di Dio, ma non sente per nulla il bisogno di un’appartenenza ecclesiale e neppure ha la percezione di cosa voglia dire un’appartenenza simile (inevitabile richiamare l’analisi di un teologo di vaglia come il gesuita Christoph Theobald che parla dichiaratamente di esculturazione del cristianesimo dalla cultura europea e occidentale). Per orientarci e non smarrirci troppo, tra le mani abbiamo, dal 2013, una bussola credibile e non ancora sperimentata a fondo, il testo di Evangelii gaudium, che papa Francesco ha scritto non solo come programma del suo pontificato, ma come mappa di una Chiesa capace di uscita. E alcune parole-chiave: vangelo, fraternità, mondo. Tutte da riempire, perché ha ragione il nostro vescovo Erio, che ne ha parlato lo scorso 31 maggio in un’intervista a Settimananews: “Non sono concetti: sono volti, esperienze, urgenze che riguardano tutte la necessità di ripensare l’annuncio di Cristo, in un contesto nel quale si sono riscoperte alcune grandi domande esistenziali”.
Brunetto Salvarani