Le dimissioni del nostro vescovo sono un fatto grave. Accade molto raramente. Ha interrotto volontariamente, in modo brusco, inatteso dai più e irreversibile le relazioni precedenti. L’analogia più appropriata mi sembra il suicidio del padre. Dal punto di vista teologico il vescovo rappresenta personalmente per la diocesi il ruolo di Cristo “capo”, che guida, nutre, ammaestra la sua chiesa (il suo “corpo”) nell’amore. Nell’ordinazione si invoca sul futuro pastore lo “spiritus principalis”, perché diventi un pastore “che dà la vita per le sue pecore”. Il sacramento dell’ordinazione stabilisce una paternità oggettiva, paragonabile alla paternità biologica del padre e della madre naturali nei confronti del figlio. Ma come quella paternità oggettiva si deve poi sviluppare a livello esistenziale nelle relazioni di convivenza familiare, così la paternità sacramentale del vescovo deve esprimersi in tutte le relazioni pastorali. Mons. Cavina ha fatto valere assiduamente con tutti il primo aspetto di paternità, con troppo pochi il secondo.
Il suicida lancia sempre un messaggio, con o senza scritto, ma anche oltre lo scritto, a chi lascia. Pure mons. Cavina nella sua lettera ha fatto un esame di coscienza sui motivi: le critiche continue, il non riconoscimento del suo ruolo (deligittimazione), la “gogna mediatica” recente, sicché alla fine è venuta meno la “necessaria tranquillità della diocesi per compiere la sua missione”.
Le reazioni al “suicidio del padre” sono state come al solito. C’è stato dolore, specialmente per le persone più amiche, ma soprattutto stupore per un fatto inatteso dai più. Molti infatti pensavano che non ci fosse una via ulteriore d’uscita, dopo il tentativo fatto da papa Francesco, in occasione della sua visita a Carpi, con l’eccezionale immissione di un secondo vicario generale, permanendo il precedente don Carlo Malavasi. La nuova figura aveva proprio lo scopo di facilitare l’intesa tra il vescovo e la diocesi nella linea della sinodalità. Per questo suicidio forse c’è stato anche un po’ di “rabbia”, da parte di chi sperava che,in fondo, si potesse andare bene sulla strada intrapresa.
In questi ultimi mesi, in cui il silenzio era aumentato e alcuni preferivano proteggersi tacendo, mi chiedevo: chi dice la verità al vescovo?, pensando a san Gregorio Magno (Regola pastorale II,6 ). Meglio parole forse eccessive (mea culpa), che il silenzio.
Anche la diocesi deve fare un esame di coscienza, per rispondere al messaggio di mons. Cavina. Dobbiamo evitare la tendenza a non sapere, a non rispondere, perché impedirebbe una ritessitura nella verità e nella giustizia. Solamente il dono di un consapevole, reciproco perdono può riportare la pace.
Carlo Truzzi (dopo ampia discussione redazionale)