Zuppi: Torniamo a creare cultura
Su Notizie il Vicario Generale ha commentato l’esito di un’ indagine condotta, con corretta e stimolante metodologia, da alcuni insegnanti di religione, per verificare cosa pensano i giovani carpigiano-mirandolesi del “modo” in cui la Chiesa comunica il suo messaggio. Si tratta di un quadro interessante, anche se non particolarmente originale, date le numerose analoghe ricerche pubblicate in materia negli ultimi anni, nonché le stesse criticità emerse durante il Sinodo dei Vescovi dedicato al tema “Giovani” dell’ottobre 2018. Singolare tuttavia il mancato coinvolgimento degli alunni delle scuole superiori di Carpi, la cui scelta dell’ora di religione è da sempre numericamente minore rispetto a quelli della “bassa”.
In particolare nel resoconto colpisce, ma non sorprende, la convergenza generale degli studenti sull’efficacia del linguaggio “della carità e del servizio”, mentre induce a riflettere la critica radicale a “tutto l’impianto liturgico che appare obsoleto, clericale e autoreferenziale”. Con buona pace della riforma operata in tale ambito dal post-Concilio. Ci si chiede: qual è il reale spazio di possibile cambiamento a livello locale su questo fronte, specie in ordine ai testi e agli apparati simbolici delle celebrazioni?
Anche gli elementi catechetici vengono bollati come “non chiari, lontani, difficili e, in qualche caso, proprio non comprensibili”. Dove non è facile discernere se l’ostacolo sia il metodo sbagliato di chi propone il messaggio cristiano o l’idiosincrasia degli studenti di oggi ad elevare gli occhi e la mente oltre il dato puramente sensibile, immersi come crescono in un contesto caratterizzato da una vera e propria esculturazione del Cristianesimo.
Don Gildo coglie, con il gusto dell’ironia che lo distingue, un dato per lui significativo. I giovani, nel rispondere al questionario, non hanno praticato lo sport “critica all’omelia”, assai giocato dagli adulti e “soprattutto dalle signore”. Cioè, va però detto, da chi le omelie è solito ascoltarle, dato che, dopo la Cresima, ben pochi adolescenti e giovani vanno a messa. Su questo grave e diffusa carenza dei celebranti non a caso papa Bergoglio dedica ben 24 paragrafi della sua Evangelii Gaudium. (n. 135-n. 159). Anche qui però sembrano purtroppo improbabili miglioramenti a breve nella prassi liturgica per evidenti ragioni oggettive e soggettive.
Pare comunque pienamente condivisibile l’intenzione di don Gildo di continuare l’approfondimento della riflessione, ora avviata con questo “cantiere sinodale”, sul linguaggio della Chiesa, anche se sorge spontaneo un interrogativo: il problema primario oggi per l’evangelizzazione sta nel “come” o piuttosto nel “che cosa” la Chiesa vuole dire? In altri termini: la società post-secolarizzata del nostro tempo non capisce il messaggio, perché è espresso secondo schemi e linguaggi superati, o non è proprio interessata ad ascoltarlo, immersa e succube com’è di una concezione del mondo e dell’uomo totalmente “orizzontale”, secondo l’ottica tecnico-scientifica? Si tratta di una problematica teologico-dottrinale, che interpella radicalmente la Chiesa del nostro tempo. Ha dunque pienamente ragione don Gildo a concludere: “E’ ora che ci si incominci a pensare, insieme con coraggio”. Ma osserviamo: ben oltre la tematica dei“linguaggi”.
Sulla questa lunghezza d’onda si è posto un passaggio importante,ed in certo senso inatteso, del cardinal Zuppi alla recente Assemblea Generale della Cei. Nelle sue parole è risuonata infatti l’eco di una proposta, quella di Giovanni Paolo II e del Progetto Culturale della Chiesa italiana, improvvidamente accantonata, in quanto a torto sospettata di voler restaurare un’egemonia , mentre, al contrario, mirava esplicitamente a rendere “non irrilevante” l’apporto dei cattolici al dialogo pubblico nel nostro Paese.
Zuppi cita testualmente le parole del Papa polacco: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”. Trascurando la dimensione culturale, secondo il Presidente della Cei, fede e carità rischiano di “ridursi a intimismo, assistenzialismo o semplicemente a vivere fuori dalla storia”. Parole chiare e forti, ma necessarie, insiste il cardinale, “in un tempo emozionale e soggettivo che rivela e accentua processi di deculturazione: tutto diventa fluido, anche quello che ieri sarebbe stato impensabile. Cadono saldi riferimenti, mentre ci si esalta (e poi ci si deprime) nella drammatica vertigine della soggettività, dell’io isolato, cui sembra che tutto parta da lui.”
In tale contesto appare feconda solo in via preliminare la semplice “narrazione”dell’evento cristiano ( la promessa di Dio al Popolo eletto; la vita, lo “stile” e l’insegnamento di Gesù; la testimonianza delle prime comunità). Su queste basi, certo fondamentali, va infatti innestata quella indispensabile “riflessione-argomentazione” che sa incarnare nella storia, per ogni uomo e per l’intera società, il messaggio evangelico, leggendo i “segni dei tempi” non acriticamente, ma con lucida analisi delle loro valenze positive e negative. Basarsi sulla “sola Scrittura” produce frammentazioni infinite e non risolve la crisi della pratica religiosa. Lo dimostra quanto è accaduto e accade nelle Chiese della variegata galassia di ascendenza luterana.
Non possiamo, in sostanza, dimenticare il monito dell’Enciclica “Fides et Ratio” (1998): “” E’ illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole,abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione” (n.48). Cioè a quel livello che consente agevolmente al “pensiero unico”contemporaneo di squalificare la fede medesima.
Dunque, torniamo anche nella nostra realtà interdiocesana a pensare, già a partire dalla prossima tappa sapienziale del percorso sinodale in atto, puntando sia allo spessore qualitativo, che alla capillarità del processo.
Pier Giuseppe Levoni