Da Gratia Plena a Nicea
passando per Zuppi e il Giubileo 2025
Archiviata la discussa mostra in Sant’Ignazio, promossa per “dialogare” con gli artisti e finita come sappiamo, con eloquente scarico di responsabilità, resta la domanda: come mai in diocesi l’Area della Pastorale, Evangelizzazione e Catechesi , pur annoverando una ventina fra Uffici, Servizi e Commissioni, non ne prevede una che si occupi espressamente di CULTURA in senso proprio?
La domanda non sembri peregrina, se il Presidente della Cei, cardinale Zuppi, ha concluso la sua ampia introduzione alla recente Assemblea dei Vescovi con un un esplicito mea culpa circa il deficitario rapporto della Chiesa italiana con la cultura. Scontato l’omaggio all’originalità e alla determinazione del Papa, il porporato afferma:”Dobbiamo chiederci se non pecchiamo di timidezza e di mancanza di fantasia creativa in ambito culturale. In altri termini, una Chiesa che non sia militanza (sic) e immaginazione culturale soffre di una colpevole, grave omissione. La Chiesa deve aiutare la discussione critica delle ideologie, dei miti, degli stili di vita, dell’etica e dell’estetica dominanti.”
Non sentivamo perentorie affermazioni del genere da quando, accantonato, anziché riqualificarlo, il Progetto Culturale lanciato dopo il Convegno Ecclesiale di Palermo ‘95, si sono privilegiate altre strade pastorali. Oggi, rincara Zuppi, “Per non perdere vitalità e capacità comunicativa, la Chiesa deve fare i conti con la cultura nel suo insieme, prendendo in considerazione tanto le élite intellettuali laiche che la dominante cultura di massa”.
Perfettamente d’accordo. Ma, per disporsi a un dialogo che non sia semplice scambio di verbali cortesie, è indispensabile uscire dall’incertezza dottrinale che oggi sembra minare alle radici ogni buona intenzione di confronto. Ci bastano due esempi. Partiamo dalla recente indizione del solenne GIUBILEO 2025, con una bolla che elenca dettagliatamente luoghi e condizioni per lucrare le sante INDULGENZE per sé e per le anime del Purgatorio. Sono prassi e concetti che, pur permanenti nelle credenze e nelle scelte dei fedeli di formazione preconciliare, non ricorrono quasi mai nella predicazione di alto e basso rango degli ultimi decenni. Lo attestano l’evanescenza crescente della riflessione sul peccato e sulla giustizia divina (appannaggio ormai dei pochi preti bollati come tradizionalisti); come il coevo silenziatore sulla necessità di accostarsi al sacramento della Confessione o Penitenza, come previsto da quel Catechismo della Chiesa Cattolica, che, pur riconfermato formalmente da papa Francesco pochi anni fa, nessuno rilegge e cita più.
Un secondo esempio ci soccorre dalla lettura su Avvenire dell’ articolo del teologo della Gregoriana Francesco Cosentino, che così si interroga: “Nell’ormai vicino anniversario del Concilio di Nicea (325 d.C) le parole dell’evento cristiano non andrebbero nuovamente tradotte ed offerte attraverso una nuova mediazione linguistico-conncettuale?” Ora, si tratta del Concilio che ha scritto nientepopodimeno il Credo che recitiamo ogni domenica nelle nostre chiese. Cioè l’ABC di quanto professa il cristiano. Oggetto insomma piuttosto delicato da maneggiare, con il rischio palese di trasformare il cristianesimo in qualcosa d’altro, con uno scardinamento radicale,sia pure operato secondo le migliori intenzioni pastorali, dagli effetti imprevedibili sulla credibilità del messaggio. Se si può convenire, sia pur con cautela, sul ricorso a linguaggi nuovi, assai più problematico appare l’abbandono dei concetti fin qui adottati per declinare le fondamentali verità di fede.
Non a caso Enzo Bianchi, in un’intervista a Rocca, ha osservato che siamo di fronte ad “una Chiesa affaticata, stanca, che fa fatica ad andare avanti. Manca una visione del futuro, non sa bene dove andare. Il Papa ha visioni profetiche, ma il popolo di Dio non lo segue. C’è un divario molto forte fra il popolo di Dio e il Papa, fra il Papa E i Vescovi. Il popolo di Dio fatica, si è assottigliato, è diventato una minoranza, sembra perdente costantemente nel confronto con il mondo.” Diagnosi impietosa, ma realistica su un’incertezza e confusione dottrinale, non risolta certo da certi documenti magisteriali che provocano, anziché chiarezza, sconcerto e divisioni fra gli stessi episcopati. Su un altro terreno, proprio in questi giorni, per le resistenze dei Vescovi italiani, sembra che sarà abbandonata anche la linea, sempre propugnata con vigore da Bergoglio, di ridurre il numero delle diocesi, passando attraverso la formula dell’unione in persona episcopi, come è accaduto pure a casa nostra.
Ondeggiamenti e retromarce, parole in libertà, ambiguità, amnesie, improvvisazioni e fughe in avanti non servono a costruire quell’ambizioso quanto vago nuovo umanesimo cristiano, che papa Francesco ha pur indicato alla Chiesa italiana nel Convegno Ecclesiale di Firenze 2015, E non servono a fondare un’identità, senza la quale anche ogni dialogo con la cultura del nostro tempo rischia di addensare nebbie anziché accendere lampade. E talora di produrre qualche infortunio. A Roma, come a Carpi. Gratia plena docet.
Pier Giuseppe Levoni