Senza Bibbia …

Senza Bibbia

In queste settimane sto presentando, in giro per l’Italia, il mio libro Senza Chiesa e senza Dio (Laterza 2023), di cui il blog di Scintilla si è già occupato con un bell’articolo di don Carlo Truzzi. Fra le cose che mi colpiscono, in questo tour, c’è una frequente obiezione relativa alla necessità, che io sostengo, per le chiese del futuro, di ripartire dalla Bibbia. È un’obiezione importante, che ha varie ragioni e non vorrei lasciar cadere, per cui provo qui a fornire qualche motivazione a sostegno della mia tesi.

Un libro assente?

Prendo le mosse dal fatto che, a mio parere, l’ignoranza della Bibbia – assai più di quanto non appaia a una lettura superficiale – sta alla base della nostra attuale incapacità di capire a fondo chi siamo, dove stiamo andando e che ci stiamo a fare al mondo. Uno degli obiettivi del mio libro è di stimolare la curiosità soprattutto di quanti non l’hanno mai, o quasi mai, presa in considerazione, nella convinzione che potrebbero trovarci qualcosa di interessante, di inatteso e di importante per loro. Non necessariamente delle risposte ai propri dubbi o alle perplessità di cui siamo tutti largamente dotati; ma certo delle domande utili a guardarsi dentro, a scrutare le proprie insicurezze e fragilità di varia natura.

Mi chiedo: se certo la cosiddetta cristianità è definitivamente alle nostre spalle e, in Occidente, viviamo ormai da diversi decenni nell’età secolare, possiamo accettare con calma olimpica che la Bibbia sia ridotta a un libro assente nella cultura media di un cittadino italiano, e che una simile assenza ci impedisca di conoscere quali racconti hanno plasmato la sensibilità e le speranze di chi ci ha preceduto? Possiamo dare per scontata non solo e non tanto la fine della cristianità, appunto, ma anche ciò che la diffusione del pensare cristiano (certo, ibridato con molte altre radici e venature) ci ha offerto, spesso pagato a caro prezzo (l’apertura al futuro, l’emergere dell’umanesimo, il primato dell’amore per il prossimo, valori cruciali nelle relazioni interpersonali come il perdono e la misericordia)? Non si tratta – come paventava don Giuseppe Dossetti in un intervento del marzo 1994 – di “darci da fare per salvare qualche rottame” della cristianità, bensì di acquisire la coscienza di cosa significhi l’azzeramento della cultura cristiana nel quadro di un analfabetismo funzionale diffuso e, c’è chi teme, irreversibile.

Il conflitto delle interpretazioni

Sono persuaso che, in ogni caso, nelle chiese future non si potrà fare a meno della Bibbia; anzi, non si dovrà, o meglio, non si dovrebbe, se ci si sofferma sul fatto che, nell’autocoscienza di alcune chiese (penso in particolare alla mia, la chiesa cattolica), per molti secoli il rapporto con il testo biblico è stato intermittente e alquanto labile, non di rado problematico e discusso, e talora quasi inesistente, almeno su vasta scala. Il discorso cambia in riferimento ad altre chiese, come quelle di matrice protestante, per le quali invece, in generale, si è trattato di una relazione vitale e spesso essenziale, se non addirittura identitaria. Per capire cosa sia successo, e perché in vista del futuro si tratti di un caso serio come pochi altri, è necessario interrogare la storia. 

Le analisi riferiscono come in Italia, soprattutto negli ultimi due secoli, si sia creata una situazione ingessata da un doppio, opposto integralismo: per cui un certo laicismo a monte e il clericalismo cattolico per un altro hanno, con il loro influsso, potentemente agito sulla mentalità e sull’immaginario collettivi, fino a rendere paradossalmente la Bibbia più un’assenza che una presenza consapevole nella cultura diffusa della nostra penisola. Paradossalmente, certo: perché,  per oltre un millennio, almeno dal IV al XVII secolo, quel libro oggi pressoché ignoto alle nostre latitudini è stato forgiato dalle liturgie ebraiche e poi cristiane, dall’inculturazione nel mondo greco-romano e nel medioevo cristiano, nonché da una meticolosa ricezione nelle chiese locali di tutta Europa. Acquisendo progressivamente lo status di testo base della cultura sia religiosa sia secolare, da cui si attingevano le verità dogmatiche da credere e le norme sociali da seguire e che, con la sua presenza nelle cattedrali, nei monasteri, nel conversare quotidiano, nelle scuole e nella letteratura popolare, ispirava intellettuali, scrittori e artisti, influenzando la mentalità dei popoli europei e plasmandone linguaggi e sentire comune. La Bibbia resta dunque in Italia, tuttora, un libro assente a troppi livelli. Personalmente, sono convinto – fra l’altro – che proprio qui, in un rapporto serio con le Scritture capace di andare oltre l’antica conoscenza catechetica e la pura curiosità nozionistica, si giochi una grande fetta del futuro del cristianesimo in Italia. Ma anche del futuro, tout-court, del nostro Paese e dell’auspicabile integrazione europea: come scriveva Giovanni Paolo II nel n.40 della Tertio Millennio Adveniente, “per conoscere la vera identità di Cristo, occorre che tutti i cristiani tornino con rinnovato interesse alla Bibbia”). Nella consapevolezza che non si tratta di un’operazione facile, bensì complessa, e che richiede una grande dose di pazienza; e che il conflitto delle interpretazioni e degli approcci (strutturalista, psicanalitico, narratologico, femminista, midrashico, e così via) sembra fatto apposta per scoraggiare i potenziali lettori ma va colto come un’occasione per ulteriori approfondimenti dopo e alla luce di quel metodo storico-critico che, orientato alla ricostruzione delle origini dei materiali biblici, permette una sana contestualizzazione del testo, evitando qualsiasi deriva fondamentalista.

Una pluralità intenzionale

In quanto libro umano (che racconta di Dio), la Bibbia ha sempre bisogno di essere interpretata. Anzi, essa vive nelle e delle sue interpretazioni. C’è una significativa tradizione ebraica che sostiene che al centro dell’intera Torà (il Pentateuco dei cristiani) sta l’espressione darosh darash, vale a dire “cercare, cercò”, che troviamo in Levitico 10,16. Il verbo ebraico darash significa appunto cercare, ma anche studiare, sollecitare, investigare. Da qui, l’importanza enorme che Israele ha sempre riservato allo studio, nella consapevolezza che l’interpretazione della Scrittura non è mai unica e assoluta, bensì sempre plurale. 

Secondo Paolo De Benedetti, la pluralità delle sue interpretazioni, se di fatto manifesta una delle caratteristiche fondamentali dell’intelligenza ebraica e una delle eredità più preziose del fariseismo e del rabbinismo classico, va vista in primo luogo come ricchezza inesauribile del parlare divino, in cui ogni parola può legittimamente essere intesa secondo le diverse potenzialità umane. 

A dispetto dei tanti tentativi di canalizzare il senso della Scrittura in un’unica direzione (quella, in genere, più comoda al potente di turno, ovviamente), anche la tradizione cristiana si muove nella medesima direzione. Basti ricordare le considerazioni di un Agostino di Ippona, secondo cui “dalle stesse parole della Scrittura si ricavano più sensi”, mentre “le medesime parole vengono intese in più modi”. Qualche tempo dopo, Gregorio Magno, teologo e poi papa, avrebbe adottato quasi come slogan l’affermazione secondo cui “Scriptura crescit cum legente”; successivamente, Giovanni Scoto arrivava a dichiarare apertamente che “Sacrae Scripturae interpretatio infinita est”. Si può evidenziare, del resto, che nel canone biblico la molteplicità dei percorsi di senso appare intenzionale, programmatica (basti pensare, ad esempio, alla replica delle narrazioni di episodi paralleli fra i Libri di Samuele, dei Re e delle Cronache, o al quadruplice racconto evangelico): essa non va quindi intesa semplicemente come il risultato di una lettura particolare o degli apporti soggettivi dei diversi lettori, ma come un valore da realizzare che il testo stesso si prefigge.

Nella modernità, tale pluralità di sensi si è indirizzata, inevitabilmente, a una molteplicità di metodi di lettura. Lo ammette, cogliendolo come un fenomeno senz’altro positivo, il documento della Pontificia Commissione Biblica del 1993 dal titolo L’interpretazione della Bibbia nella chiesa. Vi vengono citati, tra gli altri, il metodo storico-critico, l’analisi retorica, quella narrativa e quella semiotica, l’approccio che si avvale delle tradizioni interpretative ebraiche, e la storia degli effetti. Ma anche le letture che si rifanno alle scienze umane, dall’approccio sociologico a quelli psicologico e psicanalitico, fino a quello antropologico-culturale; e poi le analisi contestuali, dalla lettura offerta dalla teologia della liberazione a quella in ottica femminista. Mentre la sola chiave di lettura decisamente rifiutata dal documento è quella fondamentalista, definita come “una sorta di suicidio del pensiero”.

Resta centrale, in ogni caso, quella lettura storico-critica che già alla fine del XIX secolo aveva messo in crisi la tradizionale visione dell’inerranza biblica. La quale, in forza di un sillogismo semplicistico (“se la Bibbia ha Dio come autore e se Dio non può sbagliare, allora la Bibbia è senza errori”), giungeva quasi inevitabilmente, appunto, a un’interpretazione fondamentalistica della Scrittura, fino ad assumere posizioni apologetiche e a sostenere principi di fatto indifendibili. Grazie al metodo storico-critico, sancito in ambito cattolico dall’enciclica di Pio XII Divino Afflante Spiritu (1943), si scioglie un equivoco a lungo presente nella teologia e diffuso nella cultura cristiana, secondo cui la verità della Bibbia andrebbe posta in relazione alla rigorosa esattezza dei fatti narrati, verificabili dalle scienze storiche o dalle scienze della natura, o quello secondo cui ogni affermazione di ordine scientifico, ad esempio nel campo della cosmologia o della visione culturale, debba considerarsi vera per il semplice fatto che la si trova materialmente nella Bibbia. Il che apre, di fatto, un percorso nuovo, ricco di prospettive.

A scuola di umanità…

In questo panorama, trovo lecito sostenere che, in assenza di una consapevolezza almeno minima della Bibbia, ci si preclude la comprensione di numerose presenze nella vita quotidiana di molti Paesi di antica cristianità, compreso il nostro: come interpretare edifici, sculture e immagini che popolano città e campagne, capire espressioni, modi di dire e proverbi del linguaggio popolare e colto, muoversi tra calendari, celebrazioni e feste, se si è privi dell’alfabeto che li ha generati e nutriti? E come auspicare, inoltre, l’integrazione e la convivenza di quanti giungono qui provenendo da mondi religiosi multicolori, se chi dovrebbe accoglierli non è in grado di spiegare loro testi e meccanismi che nella storia ne hanno originato usi e costumi? Sì, sono domande tutt’altro che marginali – e tutt’altro che neutre – nell’attuale quadro sociale nazionale: quali episodi, volti, immagini bibliche hanno plasmato l’orizzonte simbolico e culturale di generazioni di uomini e donne nati e cresciuti in una società che, fino a pochi decenni fa, non poteva non dirsi cristiana? Quali di tali racconti e personaggi parlano ancor oggi un linguaggio universale, come fanno, ad esempio, i protagonisti immortali del teatro classico o la raffinata sapienza orientale? “Non c’è un aspetto della nostra cultura, compreso il marxismo, che non sia stato influenzato dalla cultura espressa dalla Bibbia… Perché i ragazzi debbono sapere tutto degli dei di Omero e pochissimo di Mosè? Perché debbono conoscere la Divina Commedia e non il Cantico dei Cantici (anche perché senza Salomone non si capisce Dante)?”, si chiedeva anni fa Umberto Eco.

Concludendo, la Bibbia è un libro con il quale siamo chiamati a confrontarci, credenti o non credenti, laici o religiosi che siamo. Le figure che si affollano nelle sue pagine si affannano e comunicano, s’innamorano e lavorano, combattono e piangono, mentono e tradiscono, uccidono e vengono uccisi, desiderano e sognano, mangiano e si divertono: sono, dunque, come gli uomini e le donne di ogni tempo e di ogni luogo, di ieri e di oggi, chiamati, se ci riescono, a umanizzarsi e a fare i conti con la nostra fragilità così come lo siamo noi. La Bibbia: con Dio a scuola di umanità.

Brunetto Salvarani