I rischi del linguaggio

Nell’Esortazione Evangelii Gaudium n.41, papa Francesco afferma che “gli enormi e rapidi cambiamenti culturali richiedono che prestiamo una costante attenzione per cercare di esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere la sua permanente novità. Poiché, nel deposito della dottrina cristiana «una cosa è la sostanza […] e un’altra la maniera di formulare la sua espressione». A volte, ascoltando un linguaggio completamente ortodosso, quello che i fedeli ricevono, a causa del linguaggio che essi utilizzano e comprendono, è qualcosa che non corrisponde al vero Vangelo di Gesù Cristo. Con la santa intenzione di comunicare loro la verità su Dio e sull’essere umano, in alcune occasioni diamo loro un falso dio o un ideale umano che non è veramente cristiano. In tal modo, siamo fedeli a una formulazione ma non trasmettiamo la sostanza”.

Anche da noi questo rischio è reale. Ho occasione di ascoltare omelie (uno degli strumenti di comunicazione più usati nelle varie chiese) e mi chiedo spesso che cosa può capire un cristiano, che ha appena una formazione catechistica elementare, quando ascolta un linguaggio farcito di parole come grazia, salvezza, sacrificio, ecc. E’ importante ricordare che il significato del messaggio ricevuto è sempre ridefinito e interpretato in funzione delle condizioni concrete – sociali e culturali e linguistiche – delle persone alle quali si dirige. Questo fatto obbliga la chiesa a preoccuparsi non solo con quello che dice, ma anche con il significato che le sue parole assumono agli orecchi di coloro ai quali si rivolge. Per questo, la cosa importante non è usare lo stesso linguaggio della gente con il rischio di dire banalità, ma esprimersi in modo tale da far comprendere bene il messaggio che si vuole trasmettere.

A questo scopo è anche importante strutturare il discorso in modo da evidenziarne l’unità. Il messaggio deve essere uno solo e, alla fine, dovrebbe poter essere riassunto in un’unica frase. Nello stesso documento, parlando dell’omelia, al n.143, papa Francesco dice una cosa che mi sembra importantissima: “La sfida di una predica inculturata consiste nel trasmettere la sintesi del messaggio evangelico, e non idee o valori slegati. Dove sta la tua sintesi, lì sta il tuo cuore. La differenza tra far luce sulla sintesi e far luce su idee slegate tra loro è la stessa che c’è tra la noia e l’ardore del cuore. Il predicatore ha la bellissima e difficile missione di unire i cuori che si amano: quello del Signore e quelli del suo popolo. Il dialogo tra Dio e il suo popolo rafforza ulteriormente l’alleanza tra di loro e rinsalda il vincolo della carità. Durante il tempo dell’omelia, i cuori dei credenti fanno silenzio e lasciano che parli Lui. Il Signore e il suo popolo si parlano in mille modi direttamente, senza intermediari. Tuttavia, nell’omelia, vogliono che qualcuno faccia da strumento ed esprima i sentimenti, in modo tale che in seguito ciascuno possa scegliere come continuare la conversazione. La parola è essenzialmente mediatrice e richiede non solo i due dialoganti ma anche un predicatore che la rappresenti come tale, convinto che «noi non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù» (2 Cor 4,5)”.

Quando questo non avviene, c’è il rischio che il messaggio evangelico (che il sacerdote ha il compito di trasmettere) rimanga nascosto (o addirittura sepolto) sotto un manto di idee personali, che certamente non riescono a riscaldare il cuore dei fedeli, ma possono essere, per chi riesce a seguirle, persino irritanti. Queste considerazioni suggeriscono domande: Perché a livello di diocesi non si pone esplicitamente questo problema? In che modo i laici potrebbero essere interpellati dando loro la possibilità di offrire il loro contributo? La loro partecipazione non aiuterebbe anche a superare un certo clericalismo?

 

Tommaso Cavazzuti