Pochi preti, troppe strutture

Pochi preti, troppe strutture

Si può così sintetizzare l’analisi di monsignor Castellucci, espressa in un interessante focus pubblicato dal mensile Jesus sulle prospettive della Chiesa in Italia, fortemente investita dalla secolarizzazione e in questi tempi dalla pandemia. Nel nostro Paese in vent’anni i sacerdoti diocesani sono diminuiti del 16% e solo un prete su dieci ha meno di 40 anni.

Che fare?  Dice don Erio: “Una risposta inadeguata sarebbe quella di mantenere la struttura pastorale delle nostre comunità così com’è e cercare risposte altrove. Non si tratta di trovare sostituti, siano essi  preti immigrati o altre figure che, pur non essendo presbiteri, continuano a far dipendere la comunità di un’unica persona.”

Dunque nessun reclutamento in altri Paesi, specie in Africa e in Asia, ove, fa notare un altro interlocutore al focus, aumentano le conversioni al cattolicesimo e le vocazioni, “ma ci sono limiti nella capacità di formare il clero”, per cui i pastori sono più insufficienti di quanto non lo siano in Italia.

La via da seguire, osserva il nostro vescovo, “è quella di immaginare una diversa esperienza di Chiesa, più dinamica e meno legata a dei singoli luoghi, meno dipendente dai preti, più animata da persone che svolgono ministeri diversi – non solo ministeri istituiti, ma anche altri servizi –  più affidata ai laici”.  Si tratta, come è del tutto evidente, di una visione che supera lo schema parrocchia-prete tuttofare, detentore di ogni potere e fornito di ogni competenza, per taluna delle quali non ha magari né preparazione, né attitudine.  Anzi, di fronte al calo dei fedeli praticanti, “si potrebbe paradossalmente dire che meno cristiani ci sono, più avrebbe da fare un prete, perché dovrebbe ripartire dall’annuncio del Vangelo e dall’accostamento alle persone che vivono dove è lui.”

Circa le strutture, materiali ma anche pastorali e spirituali, don Erio le definisce “ritagliate su un numero di presbiteri molto più alto, triplo o quadruplo di quello attuale, e soprattutto solo sui presbiteri, cioè impostate in modo piuttosto clericale”.  Bisogna avere il coraggio, anche rischiando l’impopolarità, di mettere mano a questa “eredità molto pesante e di ristrutturare i beni che possono essere veramente a servizio del Vangelo e delle persone, specie dei più disagiati”. E mons. Castellucci conclude: “Non dobbiamo perdere troppo tempo ed energie a conservare ciò che non serve più.”

Sono considerazioni in parte già esposte in passato dal Vescovo anche qui in diocesi, ma, occorre riconoscerlo, riguardano situazioni e prospettive di cambiamento assai complesse ed impegnative.  Il percorso sinodale, che dal prossimo ottobre anche la nostra Chiesa locale è chiamata a intraprendere, nell’ascolto, nella riflessione e nel confronto, dovrà dedicare a tali problematiche una particolare attenzione. E’ un’occasione preziosa per la nostra comunità ecclesiale. Sarebbe grave omissione sprecarla. 

Pier Giuseppe Levoni