Parrocchie o comunità a geometria variabile?

Parrocchie o comunità

In queste ultime settimane sono stati nominati in diocesi di Carpi quattro nuovi parroci a Mortizzuolo, Mirandola, Quartirolo e Limidi. Altri tre parroci tra poco si ritireranno per età. Siamo ancora una volta di fronte al numero dei presbiteri, a quanto pare, insufficienti. Finora nei paesi dell’Occidente secolarizzato sono state adottate due misure principali. Una prevalente che consiste nell’accorpamento di più parrocchie in unità o zone pastorali. Una seconda via, molto meno battuta, è stato il ricorso a presbiteri stranieri, che in Italia provengono dal Congo, dall’India, dalla Polonia e, in misura più ridotta, da altri paesi. A Carpi i vescovi Tinti e Cavina hanno percorso entrambe le strade. Non parlo ora della seconda soluzione, ma della prima, che sembra ovvia a molti.. 

A guardar bene però, a me sembra una soluzione tampone. In fondo si arriva a parrocchie allargate policentriche, ma non cambia la sostanza. Certo non presumo di avere una risposta alternativa e risolutiva, né finora conosco risposte che vadano oltre auspici – buoni – di “nuova evangelizzazione”, ”andare al largo”, “andare alle periferie”, “seconda evangelizzazione”. In dettaglio il mio punto di vista trova in parte una istruttiva illustrazione nel volume scritto da un parroco tedesco, che, pur volendo continuare il suo ministero, ha abbandonato, dopo trent’anni di servizio in tre parrocchie, il compito “impossibile” di parroco. Si chiama Thomas Frings e ha scritto: Così non posso più fare il parroco: vi racconto perché, Milano, 2018.

Condivido in parte la sua proposta in positivo al problema dell’attuale pastorale “inutile”. Egli pensa, specialmente per le città, a una comunità presieduta da un presbitero, alla quale si partecipa volontariamente sia in base a ciò che la persona attende, sia in base all’impegno di dare anche il proprio contributo. Questo comporta sia il superamento della struttura territoriale della parrocchia ( e della zona pastorale) , sia l’articolazione della comunità sulla base di apporti sostanziali da parte di laici “produttivi” secondo carismi e ministeri effettivi. Il presbitero svolge il compito di presidente, anzitutto dell’eucaristia, ma non è più il sole della comunità. Si andrebbe verso forme più vicine alle comunità dei tempi apostolici e precostantiniani.

Per quanto riguarda il confine territoriale, osservo che esso nelle città di fatto non è più una norma, come prevederebbe ancora il Codice di diritto canonico (canone 518). Trovo anche significativo che fino al Mille e oltre esistevano soltanto le parrocchie rurali, mentre in città c’era una sola parrocchia con un unico battistero accanto alla cattedrale. Ovviamente la presiedeva il vescovo. Non che mancassero i problemi nelle città, ma quell’esperienza plurisecolare può aiutare l’immaginazione anche oggi.

La cosa più difficile da realizzare in una comunità di tipo volontario tuttavia è l’opera dei laici, dei  loro vari ministeri e carismi. Più che gli spazi organizzativi (le parrocchie, le zone pastorali) fanno problema gli spazi esistenziali da lasciare ai laici anzitutto per ascoltarli, in vista di risposte adeguate alle persone e ai tempi.

Carlo Truzzi