IL “DE ANIMA” DI DON GILDO
Bene ha fatto NOTIZIE a pubblicare integralmente il contributo che il nostro Vicario Generale ha presentato al “Convegno Copernico” in Polonia nello scorso febbraio. Si tratta di un’articolata relazione finalizzata a sostenere l’ipotesi che un’impostazione “biblica” della ricerca teologica possa aprire nuovi spazi di dialogo fra fede e ragione, in particolare fra la visione e cristiana e gli esiti sempre più avanzati delle neuroscienze.
La prima parte dell’impegnativo saggio intende spiegare il rapporto fra ispirazione divina e autonomia dell’autore, che ha redatto materialmente il testo sacro, e soprattutto a sgombrare il campo dalle “ingenue ma drammatiche distorsioni” di una lettura fondamentalista della Sacra Scrittura; lettura superata chiaramente in ambito cattolico con l’adozione, riconosciuta già da Pio XII e sancita formalmente dal Concilio, del metodo storico-critico. Don Gildo cita in proposito un documento della Pontificia Commissione Biblica del 1993, nel quale si avverte che “l’approccio fondamentalista è pericoloso, perché attira le persone che cercano risposte bibliche ai loro problemi di vita,….offrendo interpretazioni pie ma illusorie, invece di dir loro che la Bibbia non contiene necessariamente una risposta immediata a ciascuno di questi problemi.” Né va sottaciuto il rischio concreto che “tendenze a letture fondamentalistiche possano diffondersi anche oggi e attraversare pure lo stesso mondo cattolico”
Fin qui la trattazione appare chiara e convincente, frutto di una competenza specifica di alto livello, che tutti riconoscono a mons. Manicardi, e che ha tanto contribuito a far crescere, anche nella nostra diocesi, l’amore e la meditazione della Sacra Scrittura.
Qualche perplessità e qualche interrogativo può suscitare la seconda parte del contributo, nella quale il nostro si cimenta su un terreno più squisitamente filosofico-teologico, allo scopo di proporre “Due casi di alleggerimento dogmatico e possibili nuove prospettive”. A suo avviso le categorie di coscienza e anima si riferiscono a realtà complesse “spesso interpretate con schemi teologici obsoleti se non antiquati soprattutto rispetto allo studio contemporaneo delle neuroscienze”, per cui è necessario avere il coraggio di “lasciare che questi congelamenti si sciolgano in una visione più dinamica, meglio correlata alla contemporaneità.”
Ora, a parte il fatto che coscienza e anima sono concetti filosofici, e quindi del tutto estranei al campo proprio delle neuroscienze, circoscritto esclusivamente nell’evidenza empirica, si tratta di capire che cosa significhi scongelare e quali conseguenze l’operazione possa comportare anche sul piano pastorale. Come è noto, sulla delicata e decisiva materia si sono da sempre affaticati filosofi e teologi, con importanti contributi di pensatori cristiani, da S. Agostino a S. Tommaso d’Aquino e San Bonaventura, per cui si è progressivamente strutturata in ambito cristiano una dottrina, condensata nel “Catechismo della Chiesa Cattolica”, recentemente integrato e riconfermato da papa Francesco nel 2017.
Da un lato don Gildo richiama la Costituzione conciliare Dei Verbum, secondo la quale “la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il magistero della Chiesa sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre e tutte insieme, ciascuna a modo proprio, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime”.
Dall’altro però esprime un’ evidente insofferenza per l’inadeguatezza di quanto, a proposito dell’anima , scrive il predetto Catechismo: “La Chiesa insegna che ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio, non è prodotta dai genitori, ed è immortale. Essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo nella morte, e di nuovo si unirà al corpo al momento della risurrezione finale.” In questa ottica, osserva don Gildo, non si supera “una certa giustapposizione…non del tutto capace di assorbire la dualità della combinazione di due principi eterogenei”.
E’ dunque più fecondo, a suo giudizio, rifarsi al messaggio biblico, che suggerirebbe una “visione sostanzialmente più unitaria del’uomo”. Richiama a tal fine un documento della Pontificia Commissione Biblica del 2019, nel quale si apre uno scenario diverso che apre prospettive nuove alla ricerca teologica. Sulla scia di tale testo, a parere di don Gildo, “L’uomo è creato per vivere una relazione del tutto singolare a Dio… Rispetto agli animali non è un essere con dei marchingegni in più, delle strutture spirituali create direttamente da Dio…L’uomo non possiede un componente immortale inserito nel suo corpo terreno , ma è immortale per l’amore con il quale Dio lo custodisce e non lo lascerà mai”.
In altri termini l’anima non sarebbe un’entità, ma una relazione, più precisamente l’amore, il frutto del nostro impegno sull’amore di Dio “che ci circonda anche personalmente”. Siamo di fronte ad una concezione dell’anima non priva di una sua suggestione,evocante il mistero profondo della natura umana, e quindi meritevole di attenta e mai definitivamente compiuta riflessione.
Sul piano prettamente logico non possiamo però trascurare che il concetto di relazione rimanda necessariamente a due termini, a due entità che essa connette, ognuna delle quali deve possedere la potenzialità di entrare in rapporto con l’altra. Nel nostro caso l’uomo, per vivere questa relazione d’amore con Dio, deve averne la capacità, cioè essere dotato di una facoltà spirituale che lo distingue da ogni altra creatura, e che la Sacra Tradizione e il Magistero della Chiesa definiscono da sempre anima. Con relative conseguenze sul piano della catechesi, circa l’immortalità, e sul piano dei contenuti e del linguaggio degli stessi testi liturgici. Per non dire delle pratiche devozionali in materia. Scongelare tutto questo appare piuttosto complicato, e pastoralmente denso di incognite.
Del resto lo ammonisce Cristo. “Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?” (Mc 8,36) Si può perdere solo ciò che si ha.
Tommaso Cavazzuti
Pier Giuseppe Levoni