Irrealistica ogni frattura

Fra Annuncio e Dottrina

Fra annuncio e dottrina

Il pastore valdese Paolo Ricca, valente teologo assai stimato anche in ambito cattolico, ha pubblicato di recente un interessante saggio dal titolo : “Dio. Apologia”. Ha forse bisogno la fede cristiana oggi di essere difesa? A suo giudizio sì. In un’intervista a “Confronti” ha spiegato: “ La fede ora si va ampiamente abbandonando, senza sapere quanto si perde, perdendola.” E aggiunge: “Così non si sa più dove andare, manca un senso plausibile. Manca alla storia individuale di ciascuno e manca pure alla storia collettiva.”

Secondo Ricca, “In Europa siamo messi male, siamo a una storia crepuscolare,.. la situazione non è troppo diversa dal primo cristianesimo.” Dunque questo è il tempo dell’annunciare in Europa un Dio che non si conosce quasi più.” E invece paradossalmente: “La freschezza dell’annuncio cristiano si è molto annacquata. La Chiesa parla dei poveri, degli ultimi, dei migranti, predica le opere che dobbiamo fare, ma non parla di Dio. Il discorso su Dio oggi  è declinato tutto sull’altro, sul prossimo”. E ancora: ”Dio è presupposto, è un’ipotesi alle spalle, non la meta del nostro cammino; noi non lo mettiamo davanti.”

Difficile non concordare su questa amara analisi. Troppo spesso il richiamo all’essenziale del Vangelo si risolve, non nel prioritario annuncio della Risurrezione di Cristo (verità ostica per l’odierna visione tecnico-scientifica della realtà come lo fu per gli ateniesi cui si era rivolto Paolo), ma nella riduzione del messaggio cristiano alle parabole del Buon Samaritano e soprattutto al discorso che leggiamo in Matteo 25, 31-46. Di questo testo chiave però troppo spesso si enfatizzano solo  i versetti che sottolineano l’importanza delle l buone opere fatte od omesse verso il prossimo, a scapito di quelli che ribadiscono chiaramente il giudizio finale: “E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna”. Di più: c’è chi sostiene, in proposito, che queste parole di Cristo sono state fin qui mal interpretate; saranno non le persone ad essere giudicate, ma le loro azioni, positive o negative che siano state. Dopodiché resta ignota che fine faranno i risorti dai morti. Con buona pace dei Novissimi, non a caso oggi messi in sordina, nonostante il Catechismo della Chiesa Cattolica, riconfermato nel 2018 da papa Francesco, sia chiaro nel definire cosa si intenda, professando di credere la vita eterna.

Questa possibilità di leggere a piacimento, anzi si teorizza oggi ”in modo queer, cioè obliquo, strambo, non allineato, l’insegnamento di Gesù, come l’intera Scrittura, rischia di rendere liquido ogni messaggio e lede alla radice la  sua credibilità nel contesto culturale odierno. La luterana via della “sola Scriptura” non garantisce  certo quella “plausibilità” del credere, nella stagione della nietzschiana morte di Dio,  su cui il nostro Brunetto Salvarani si interroga nel suo saggio “Senza Chiesa e senza Dio”. Lo attesta ad abundantiam la crisi del Protestantesimo europeo e nordamericano nelle sue più storiche espressioni.

Per queste ragioni solleva qualche perplessità certo odierno mettere ossessivamente l’accento sullo stile di Gesù rispetto all’intero suo insegnamento, sostenendo ad esempio, come abbiamo udito da un autorevole ambone locale in questi giorni: “ Noi non viviamo come seguaci di un grande maestro di dottrina, ma come discepoli di uno che ha dato la vita per noi ed è vivo dopo la morte”. In un’affermazione come questa è possibile separare e distinguere solo retoricamente, ma non logicamente, fra discepolo e seguace, fra annuncio e dottrina; fra il personaggio storico Gesù di Nazareth e la sua concezione della realtà,  che apre all’esistenza di un Dio, che è Padre, e alla speranza di una vita ultraterrena. in altri termini: una dottrina, quella sintetizzata nel Credo che  la Chiesa da due millenni chiama i fedeli a professare e a proporre. Senza la cornice di questa dimensione teologica fondamentale, la stessa figura di Gesù può ridursi a quella del divulgatore ed interprete, fino al sacrificio supremo, di una radicale “etica dell’amore”;  un uomo buono messo a morte  per la sua  predicazione potenzialmente “rivoluzionaria”, la cui risurrezione, in una simile ottica, sarebbe però facilmente considerata una “favola” diffusa dai discepoli. 

Quante volte sentiamo ripetere, non solo da ben noti conferenzieri laici come Augias o Galimberti, che è Paolo il fondatore del Cristianesimo, che Gesù non ne aveva alcuna intenzione. Eppure leggiamo in Matteo 5, 17-37 parole inequivocabili. “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono  venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento.” Cioè ad  “inverare” sostanzialmente una ben robusta “religione”, quella ebraica, in cui era stato formato e non ha mai inteso sottostimare. E la Chiesa, comunità dei credenti e al contempo sintesi ineliminabile e concreta di profezia e istituzione, ha il compito di testimoniare integralmente il Salvatore nella storia, con l’annuncio e la dottrina.

Se dunque non è corretto  confondere la “fede” del singolo credente (come aspirazione intima e coerente a configurarsi al modello-Cristo) e la sua “religione”, (come concezione del cosmo,  dell’uomo, e della prassi per la salvezza), è irrealistica una traumatica alternativa dialettica fra i due termini; che al contrario si legano indissolubilmente nella concreta esperienza del cuore umano. Simul stabunt vel simul cadent, non esiste l’una senza l’altra.

Pier Giuseppe Levoni – Tommaso Cavazzuti