Una fine non è la fine
La guerra giudaica, combattuta tra il 66 e il 70 d.C., fu un fatto terribile e sconvolgente per i cristiani di quel periodo. L’orizzonte di comprensione di quella catastrofe lo raccolsero nell’insegnamento di Gesù. Insegnò a distinguere una fine dolorosa dalla fine in senso assoluto. La fine di Gerusalemme non è che una premessa alla prova definitiva della fine. Il traguardo del nostro mondo sarà la venuta del giudizio e del regno definitivo di Dio, affidato a Gesù-Messia. “E quando sentirete parlare di guerre, non allarmatevi; bisogna che ciò avvenga, ma non sarà ancora la fine. …Vi saranno terremoti sulla terra e vi saranno carestie: questo sarà il principio dei dolori….Dopo quella tribolazione vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria.” (Mc 13, 7s;26). Da quel giudizio ultimo e universale di Cristo dipende non una fine parziale, ma la fine di ogni sofferenza in questo mondo e l’inizio di una felicità o di una condanna senza fine.
Il terremoto di dieci anni fa, per noi che abbiamo vissuto nel cratere del sisma, ha posto una domanda immediata. Perché la fine di tanti progetti di vita si abbatte su chi si sente incolpevole? E’ la stessa questione che rodeva Giobbe, uomo giusto e privato dei beni, dei figli e della salute, che venne invitato ad avere fiducia nell’intelligenza superiore di Dio e nella provvidenza misteriosa e irreprensibile del Signore.
Nel sottofondo però spuntò anche un’ulteriore domanda sul perché di quella “catastrofe”, che consiste nella morte personale, dalla quale il terremoto dà un agro presentimento. Quando arriva la morte vai alla vita o alla rovina per sempre. Per me non ci sono ipotesi intermedie, perché è il prezzo e il valore della nostra libertà personale. Nei giorni del sisma c’è stato chi ha risposto a questa suprema questione, chi ha ricercato senza trovare una risposta oppure ha rinviato il quesito.
Personalmente una delle prime sere dopo il 20 maggio ho guardato alla mia fine, all’insieme della mia vita e al mio Giudice. Mi sono trovato – lo dico sommessamente – nelle parole di sant’Ambrogio morente ad alcuni confratelli vescovi: “Non vissi tra voi così da vergognarmi di vivere, ma neanche temo di morire, perché abbiamo un Signore buono” (Paolino, Vita, 45). Ricevuta questa grazia, mi addormentai sereno nel sottotetto della canonica di Cividale.
Carlo Truzzi