Dopo le sagre

Dopo le sagre

Se il fare diventa un idolo

Scorrendo le pagine dell’ultimo numero di Notizie, prima della pausa estiva, si resta colpiti dall’incredibile quantità di iniziative che anche la nostra piccola comunità diocesana sa mettere in campo, grazie alla dedizione e al sacrificio di tanti volontari, dai “cuochi” delle sagre agli “educatori” impegnati nei campi estivi per ragazzi, dai “samaritani” dei servizi caritativi ai  “missionari”in partenza per il Perù

Sono preziose testimonianze di accoglienza cordiale, di concreta presenza sul territorio, di impegno formativo, di prossimità a chi è in difficoltà. Un patrimonio di generosità da salutare con  gratitudine e da valorizzare sempre più, per il bene spirituale e materiale del  nostro contesto sociale.

Una realtà positiva cui fanno da contraltare drammatico fenomeni preoccupanti come il calo della pratica religiosa, il distacco dei giovani, la difficoltà di molti preti e laici a prendere coscienza di quel cambio d’epoca che rende obsoleti linguaggi e gesti della tradizione ecclesiale, così da imporre il ritorno ad una riflessione seria  sul futuro della nostra Chiesa, da non da delegare a pochi addetti.

Si pensi alle tematiche discusse al Sinodo attualmente in corso sia a livello universale che italiano. Quante nostre parrocchie, quante associazioni, movimenti e gruppi diocesani ne hanno preso consapevolezza, almeno in ordine alle questioni più rilevanti oggi in esame? Si tratta di materia complessa, per il cui approccio non basta certo qualche articolo sul settimanale diocesano o qualche laboratorio frequentato solo da alcuni veramente coinvolti.

Questo  ritardo culturale,rispetto ad un ipertrofico impegno organizzativo e gestionale, può provocare due effetti. Anzitutto la pericolosa illusione che in fondo tutto possa continuare come prima, perché in fondo anche i “lontani” hanno ancora simpatia per i nostri ambienti e le nostre attività, cui partecipano volentieri. In altre parole l’illusione che quel che si fa corrisponda al monito del Papa, che auspica una Chiesa in uscita.

Ma c’è di più. Come ha osservato in un’intervista a Il Regno Silvano Petrosino, filosofo e docente all’Università Cattolica, la tendenza nel mondo cattolico a insistere “sul valore della testimonianza, ha come messo in ombra la riflessione, come se la prima potesse fare a meno della seconda.” E continua ribadendo che la prioritaria missione del cristiano e quella significata da Pietro davanti al Sinedrio, e cioè “rendere ragione” di ciò che abbiamo ascoltato nella Parola. “E’ questo che noi dobbiamo fare, prima di ogni azione o carità verso i poveri”. 

A suo parere bisogna evitare il “rischio di vivere un’arroganza del fare, l’arroganza del piano pratico”, che può trasformare in un vero e proprio idolo la buona azione e lo spirito di sacrificio.  Anche il sociologo Luca Diotallevi, in una recente intervista, esorta i cattolici a resistere al “fascino perverso dell’attivismo  che fa tacitare le domande che ci portiamo dentro davvero, e le copre con la preoccupazione per qualcosa di meno importante, ma che mi dà immagine.”

Il che non implica in alcun modo una sottovalutazione del fare, certamente positivo, ma da non assolutizzare. Altrimenti anche la oggi tanto raccomandata ospitalità può essere mal interpretata, giacché, sostiene Petrosino, “A un corpo posso dare nutrimento e vitamine, ma a una persona fatta di sogni, di tradizioni, di paure che cosa posso dare? Senza un’adeguata riflessione, la Chiesa,  pur esperta in umanità come affermava papa Montini, rischia oggi di non avere parole per una risposta efficace.”

Su questa linea di un recupero della dimensione culturale della fede e della sua testimonianza si era anche espresso in un’Assemblea Cei il cardinale Zuppi, mentre Avvenire negli ultimi mesi ha pubblicato un’importante serie di contributi ed interviste sul tema “Cattolici e Cultura”.

E’ dunque il caso che anche nella nostra diocesi si affronti il problema, integrando le attività del Laboratorio San Bernardino  con apposite iniziative, e attraverso un nuovo approccio, mirato e sistematico, con i giovani che frequentano gli istituti superiori e l’università e fanno parte di associazioni e movimenti ecclesiali. Perché non ridar vita in ambito locale alla FUCI, che presbiteri come don Renato Soncini e don Nardino Burzacchini curarono assiduamente nei decenni intorno al Concilio? 

Perché non è  si è mai lavorato seriamente a Carpi per costituire una sezione del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale (MEIC)? Eppure sono tanti fra noi i laureati di formazione cristiana. Siamo una Chiesa capace di mobilitare molte braccia, ma assai meno di coinvolgere intelligenze e competenze, in dialogo culturale con quanti sono aperti alla ricerca sul senso del vivere, al di là delle situazioni e delle problematiche contingenti,

Certo questa opzione necessita di risorse umane e di robusto sostegno economico, e magari di una regia adeguata, come si tentò una quindicina di anni fa, attraverso la creazione di un Segretariato Diocesano per la Cultura e il coinvolgimento di gruppi e associazioni laicali. Ma chi doveva sviluppare  e potenziare questa linea non ebbe la lungimiranza di farlo.

Oggi, in una condizione de facto unitaria delle due diocesi, le prospettive e le possibilità in questo ambito pastorale appaiono promettenti. Purché davvero lo si voglia e si sia capaci di decidere in merito. 

Pier Giuseppe Levoni