Del pregare liturgico

Del pregare liturgico

Il valore della tradizione nel pregare a messa

Sono appena passati i giorni delle festività natalizie, quelli in cui più numerose sono le presenze alle messe. Il Natale è una di quelle occasioni in cui per svariate ragioni molti fra coloro che raramente frequentano i momenti liturgici, avvertono un’esigenza sincera a venire alla messa, a partecipare al momento più importante della preghiera comune nella tradizione cristiana. Al di là delle contingenza la messa domenicale rimane il momento fondamentale in cui il credente, in modo pubblico, vive la propria spiritualità.

Delle tante innovazioni che il Concilio ha portato, qui vi è stata quella che più di altre ha inciso sull’esperienza di fede dei fedeli.

 Nella costituzione conciliare Sacrosanctuma concilium del 1963 si partiva dall’esigenza diricondurre « i testi e i riti a esprimere più chiaramente le sacre realtà di cui essi sono i segni, in una forma tale che, per quanto possibile, il popolo cristiano possa facilmente intenderli e ad essi partecipare con una piena, attiva e comunitaria celebrazione » (SacConcilium n.21).

La necessità che il popolo di Dio “condividesse”, comprendendole, le parole del celebrante non era più rinviabile. In Sicilia un motto esemplificava l’esperienza di straniamento dei partecipanti alla messa: cento muti e ‘nu pazzo! I muti erano evidentemente i fedeli, il pazzo, absit iniura verbis, il celebrante che distante, voltando le spalle all’assemblea gesticolava e si esprimeva in una lingua, il latino, incomprensibile ai più.

Ciò premesso, qui si vuole sottolineare l’importanza che ha però una certa fissità e rigidità della preghiera liturgica di contro a un sentimento che sentiamo diffuso di volere ulteriormente avviare verso una maggiore flessibilità e varietà il momento liturgico della messa.  Anche in occasione delle festività è capitato di sentire da parte di qualcuno l’urgenza di un’innovazione, fino a spingersi all’idea di forme di personalizzazione della preghiera eucaristica.

A nostro giudizio, la grande forza del nostro pregare comune sta invece proprio nel ripetere parole che la tradizione ci ha tramandato e nell’evitare la pericolosissima babele delle improvvisazioni o lo spontaneismo di figure presunte carismatiche che più che essere al servizio della vita spirituale dei fedeli, si muovono in libertà facendo del proprio ego il centro della celebrazione.

Si pensi a questo riguardo alle funzioni di molto cristianesimo delle sette, specialmente nelle americhe, in cui la liturgia è divenuto un’occasione di esibizionismo del celebrante.

Quella ricchezza che nella Chiesa sono i movimenti e le varie associazioni trovano un punto di caduta comune che ci fa essere prima cristiani e poi scout, focolarini, azione cattolica o altro proprio nella comune preghiera liturgica.

 Le parole del nostro pregare comune hanno la forza della ricchezza che il tempo, i secoli, hanno dato loro e, anziché indebolirle, le hanno arricchite della comunione che  determinano fra noi e tutti coloro che le hanno pronunciate e che, oggi, contemporaneamente a noi,  in tutti i luoghi dove si prega nella comunione romana, al di là della differenza delle lingue, vengono usate.

 Se devo trovare un parallelo è come lo spartito delle opere della musica classica: le note sono sempre quelle ma ogni esecuzione fa storia a sé sia nell’interpretazione dell’orchestra che nella personale esperienza di ascolto dello spettatore.

Anche con le parole liturgiche, sempre quelle, è la nostra personale spiritualità che deve aiutarci a trovare echi e risonanze sempre nuove-

Esiste anche nella messa una parte più creativa e flessibile, quella dell’omelia innanzitutto e poi la preghiera dei fedeli. E’ esperienza comune a molti che, nei commenti dei partecipanti, l’oggetto di analisi più frequente sia la predica del celebrante che caratterizza in modo forte l’esperienza domenicale.

Ma di questo si dirà più oltre.

Mario Lugli