Dare voce ai destinatari della pastorale (senza pregiudizi)

Cavalcata

Ogni 6 gennaio, giorno dell’Epifania, nella parrocchia di San Giuseppe Artigiano si svolgeva la tradizionale Cavalcata dei Magi. Era una Messa unica nel suo genere che coinvolgeva i bambini e i giovani delle associazioni. Travestiti con accurati costumi da pastorelli, angeli o popolani (che venivano riposti dopo l’uso nel magazzino della parrocchia fino all’anno successivo), percorrevano la navata centrale e si sedevano ai piedi dell’altare, dove già c’era la famiglia di Nazareth, interpretata da una coppia di neo-genitori con il loro piccolo, e dove poi giungevano i tre Magi. Era una Messa colorata e movimentata, accompagnata dai canti della corale, piena di gente, un’autentica gioia per gli occhi. Al termine, sul sagrato, si creava una processione che si divideva in due direzioni: una verso la casa di riposo e l’altra verso la pediatria dell’ospedale, dove qualche canzone natalizia allietava anziani e bambini ricoverati. C’era persino la Befana, che lanciava calze piene di dolcetti da un carro trainato da un trattore.

Cosa c’entra la Cavalcata dei Magi con il cammino sinodale? Per me è emblematica di come un evento in sé bello e positivo potrebbe mancare il bersaglio se viene calato dall’alto senza un’adeguata attenzione all’ascolto. Chi è un po’ addentro alla vicenda sa che la Cavalcata (che si svolgeva da almeno quarant’anni ed è stata cancellata negli ultimi due soltanto per le restrizioni causate dalla pandemia) era molto apprezzata da chi la guardava ma molto meno da chi la interpretava. Tuttavia, nessun ragazzo l’aveva mai contestata apertamente, seppure qualche ragionevole argomentazione l’avrebbe avuta, per il semplice motivo che sarebbe stata una battaglia persa. La Cavalcata era una tradizione radicata, assurta a simbolo di unità della comunità parrocchiale e che aveva indubbie ricadute positive sull’esterno. Il loro disagio sarebbe stato liquidato facilmente come egoismo o pigrizia. L’unica via di fuga perciò era quella di restare a letto o andarsene in montagna senza chiasso né dichiarazioni pubbliche. E se tra i banchi della chiesa mancavano adolescenti e giovani, pazienza, ci avrebbero pensato i bambini a rimpiazzarli. Almeno finché non fossero cresciuti anche loro.

Nella nostra società liquida gli abbandoni della Chiesa sono silenziosi, non traumatici e perciò più difficili da riconoscere e da decifrare, ma basta leggere le statistiche o guardarsi semplicemente intorno per osservare che l’emorragia non si arresta.

Qual è allora l’atteggiamento che un cammino sinodale dovrebbe adottare nella fase dell’ascolto per essere efficace?

Mi viene in mente una riunione di clan con don Enea Tamassia, una trentina di anni fa, quando era il nostro assistente ecclesiastico e parroco del Duomo. Ci propose una route di Pasqua diversa dal solito: rinunciare ai tre giorni sui monti per trascorrerli in parrocchia, vivendo il Triduo in modo più profondo e comunitario. I nostri capi erano d’accordo. Dopo aver lanciato l’idea, don Enea uscì dalla stanza con questa motivazione: “Voglio che ne parliate liberamente e non voglio influenzarvi con la mia presenza”. Noi ne discutemmo e, quando rientrò, gli dicemmo che preferivamo la route in montagna. Lui accettò la nostra scelta, anche se avrebbe sicuramente preferito un esito diverso.

Perché non è il traguardo che conta, ma il cammino che si fa per arrivarci.

Saverio Catellani