Quando non si riesce a trovare una chiesa aperta nemmeno di domenica e l’ossessione per la sicurezza fa trascurare le richieste spirituali dei cristiani meno praticanti
Qualche domenica fa ero a Varese e volevo visitare la Basilica di San Vittore. Salgo i pochi gradini sul sagrato e spingo il portone. Chiuso. Tento con l’altro ingresso. Chiuso pure quello. Non mi sono stupito più di tanto, anche se erano le sei di pomeriggio di una domenica, perché negli anni ho capito che trovare una chiesa aperta fuori dagli orari delle celebrazioni è un’impresa ardua dappertutto, a Varese come a Carpi. Ricordo tempo addietro un sagrestano che, appena terminava la Messa di mezzogiorno in Duomo, si affannava a spingerci fuori (non dico sbuffando, ma quasi), per poter finalmente chiudere i battenti e andare a pranzo.
Il portone sbarrato è la normalità delle nostre chiese, scelta spesso giustificata da motivi di sicurezza. Vuoi mai che, con la scusa di pregare, qualcuno si metta a scassinare la cassetta delle offerte o infili un candelabro in un sacco.
Di fronte alla priorità di garantire “la sicurezza” (autentico feticcio del nostro tempo) si aprono diversi scenari: assumere un custode? Non se ne parla. Basta pronunciare la proposta, perché tutte le le parrocchie si cospargano immediatamente il capo di cenere e piangano miseria.
Mobilitare turni di volontari? Per carità! E chi li trova? I preti sono occupatissimi, i diaconi fanno già di tutto di più, frati e suore hanno la loro missione, pie donne e aggregazioni laicali si dedicano ad altro.
Installare telecamere di videosorveglianza? Non si può. Perché? Perchè no. E se anche si potesse, non ci sono i soldi.
E così le chiese restano chiuse, buone per essere ammirate dall’esterno come monumenti storici e segno tangibile della fede dei secoli passati.
A Varese trovo aperta soltanto la chiesa di San Martino. Tuttavia, un foglio appeso sul portone mi avvisa che la Messa si stava celebrando nel rito antico ambrosiano. Sbircio nella semioscurità un po’ timoroso all’idea di infilarmi fra gli ultratradizionalisti preconciliari. Di fronte all’altar maggiore scorgo preti e chierichetti rivolti con le spalle ai fedeli. Nei banchi, alcune donne hanno le chiome coperte da un pudico foulard. Sotto la volta si levano canti in latino e dai turiboli si innalzano filamenti di incenso che saturano l’aria come una nebbiolina. L’essenza fuoriesce persino dal portone socchiuso, tant’è che un ragazzino dall’aspetto “maranza” che passeggia sul marciapiedi si volta con una smorfia di disgusto verso gli amici, esclamando: “che puzza di chiesa!”
Anche se il ragazzo non aveva apprezzato, una porta aperta ha il potere almeno di generare una reazione, una qualche curiosità. Un famoso forno del centro aveva fatto successo con un’idea semplicissima: lasciare spalancata la porta per diffondere sotto il portico il profumo fragrante di pane e focacce.
Per le chiese dovrebbe valere lo stesso principio. In un Occidente che vive un calo verticale della partecipazione comunitaria, le chiese dovrebbero restare aperte almeno per alimentare il rapporto individuale con il Sacro, che si traduce in una visita, una candela accesa, una preghiera.
Se oggi la maggior parte delle entrate economiche di una parrocchia non proviene dalla questua, bensì dalla cassetta delle offerte, significa che sono tanti i cristiani che si ritrovano in questo tipo di affezione religiosa.
Capisco che non tutte le chiese possano permettersi di restare aperte dalle 8 di mattina alle 8 sera, sette giorni su sette, ma è davvero impensabile che lo resti almeno la Cattedrale? Davvero non siamo in grado di assicurare ai cristiani cosiddetti “non praticanti” nemmeno questo minimo sindacale? Perché se le cose stanno così, allora i problemi che ci affliggono sono davvero più grandi di quello che immaginiamo.
Saverio Catellani