“Chi canta, prega due volte” è una massima che si fa risalire a Sant’Agostino, anche se il vescovo di Ippona aveva scritto più precisamente che “il cantare è proprio di chi ama”. Il concetto comunque è assimilabile e non a caso tutti i riti sacri, in ogni religione, prevedono il canto.
Qual è allora lo stato di salute dei canti nelle nostre celebrazioni? Non entusiasmante, a mio parere, ma va detto che esistono parrocchie più sensibili di altre e alcune si sono persino dotate di una corale stabile. Tuttavia la maggior parte conta sulle chitarre degli scout, dei neocatecumenali o di altri gruppi parrocchiali e, in loro assenza, soprattutto nelle Messe feriali, fanno di necessità virtù e si affidano alla buona volontà di qualche suora intonata.
Nei primi Anni Duemila era sorto un piccolo e proficuo dibattito a seguito della nomina di una commissione per creare un nuovo cantorale diocesano. Secondo le direttive impartite, per la porta stretta potevano passare soltanto canti fedeli ai testi sacri, senza tante divagazioni romantiche o impianti teologici discutibili. Non era stato un compito facile e mi pare di ricordare che a farne le spese, tra i canti più celebri e diffusi, fossero stati “Cristo non ha mani” attribuito a Raoul Follereau, ma forse di un anonimo fiammingo del XIV secolo e “Resta qui con noi” del Gen Rosso.
Tralascio il capitolo dei “canti della tradizione”, soprattutto natalizi o alla Vergine che meriterebbero un discorso a parte e mi chiedo se l’aderenza alle Sacre Scritture debba essere un criterio così dirimente per la selezione dei canti liturgici o se si possano considerare come ugualmente influenti anche altre ragioni.
A metà degli Anni Ottanta, un mio compagno di classe dichiaratamente ateo (ma con un passato cattolico), nello spogliatoio dopo l’ora di educazione fisica, si metteva a cantare a squarciagola a mo’ di sberleffo: “Purificami o Signore, sarò più bianco della neve”, opera notissima di Gelineau (1920-2008) che ho cantato anche durante l’ultima Messa delle Ceneri. La fedeltà testuale al Salmo 50 è fuor di discussione, ma può bastare questo per continuare a proporla anno dopo anno? A 16 anni la trovavo già desueta e quel compagno non aveva fatto altro che rafforzarmi nella convinzione.
Forse una delle frontiere del rinnovamento della celebrazione eucaristica oggi passa dai canti per la liturgia. Sia chiaro, non tutti risultano irrimediabilmente superati all’orecchio moderno. Soltanto per fare qualche esempio, Symbolum ’77 di Pierangelo Sequeri o Symbolum ‘80 di Giulia Parisi, che già nel titolo indicano l’anno di produzione, sono ancora attuali.
Tuttavia esiste un filone di “christian music” italiana contemporanea tutta da scoprire, che non si limita al solo Marco Frisina, autentica superstar sia per la quantità che per la qualità del materiale prodotto, ma si compone di diversi autori che hanno canali di diffusione molto di nicchia.
Qualcosa però si sta muovendo. A Bologna è nata “la Gloria” una casa discografica che riprende la tradizione interrotta della Casa Musicale Eco e della Rugginenti Editore con lo scopo, tra gli altri, di diffondere musica e canzoni religiose di qualità attraverso i sistemi di oggi.
Sono spazi e opportunità che si aprono sia in ingresso per rivitalizzare le nostre celebrazioni, sia in uscita per far conoscere la produzione locale. Penso ai canti della Comunità del Duomo, ma non solo, che per decenni hanno rappresentato la colonna sonora delle nostre Messe e che avrebbero meritato, per la loro qualità, una diffusione ben maggiore.
Saverio Catellani