Cammino sinodale

Cammino sinodale

e se partissimo dai vicini invece che dai lontani?

Dopo qualche anno di resistenza passiva (per dirla alla vecchia maniera) o di resilienza (più à la page), la CEI ha rotto gli indugi e il 9 luglio scorso ha avviato il percorso, mettendo però i puntini sulle i (o sugli iota, per i più raffinati grecisti): si tratta di un cammino sinodale e non di un sinodo.

La differenza fra i due termini può appassionare i cultori della materia, capaci di coglierne le sottili implicazioni, ma fa sorridere il fatto che qualcuno l’abbia considerata una distinzione meritevole di essere posta come premessa. Anche perché le sollecitazioni del Papa nella Evangelii Gaudium (bussola e motore di questo cammino) vanno nel senso di spingere la Chiesa “in uscita”, portare l’annuncio della Buona Novella fuori dai rassicuranti confini parrocchiali, usando un linguaggio comprensibile all’orecchio di chi ascolta. Impresa difficile già dalle premesse.

Diciamolo fuori dai denti, “la Chiesa in uscita” è un’immagine suggestiva e del tutto condivisibile, ma è anche uno degli incubi inconfessati del cattolico medio (laico o presbitero che sia). Annunciare il Vangelo urbi et orbi, anche a chi non ha mai espresso il desiderio di ascoltarlo è un’impresa che mette i brividi, specialmente se i cosiddetti lontani non sono un’accezione generica per indicare popoli che vivono in un altro Continente, ma hanno un volto e un nome. E l’idea di avvicinarli per condurli in un Centro di ascolto a scopo catechesi ci fa precipitare d’emblée nei panni inusitati di Testimoni di Geova.

Per me, i lontani, quando partecipavo da piccolo alla processione dell’Assunta, erano quelli che ci aspettavano al varco sui gradini del teatro, scambiandosi sorrisi sornioni e bestemmie a mezza bocca. Poi, crescendo, ne ho conosciuti altri più da vicino: atei, agnostici, anticlericali, persone che non nutrivano alcuna curiosità nei confronti del nostro credo, quando non una vera e propria avversione.

E per annunciare il Vangelo a questa torma non basta la buona volontà, ma sento la necessità di un intervento diretto dello Spirito Santo sotto forma di panglossia, come sugli Apostoli il giorno di Pentecoste. Perché noi cattolici abbiamo oggettivamente un problema di linguaggio nel comunicare l’esperienza religiosa. Quando tentiamo di giustificare la nostra fede ci impappiniamo e scivoliamo nel ridicolo involontario o nella formula autoportante. Ha un bel da dire la Evangelii Gaudium che “la missione si incarna nei limiti umani” e occorre adeguare il modo di comunicare affinché la sostanza dell’annuncio non giunga distorta all’orecchio di chi ascolta, ma è più facile da scrivere che da fare. Il Credo niceno, che contiene la summa dei fondamenti della religione cattolica, è irricevibile per chi non ha sotto i piedi un sedimento di anni di omelie e catechesi (“Davvero credete nella resurrezione dei corpi? Ma dai!”) e riesumare la disputa sul filioque che mille anni fa provocò lo scisma d’Oriente, causerebbe oggi più di uno sbadiglio. E non solo ai lontani.

Perciò confesso di non sentire questa tensione verso l’impresa ardita, l’anelito alla conquista della cima inaccessibile, il trofeo prezioso della conversione del soldato romano o del pubblicano. Anzi questo puntare in alto potrebbe crearci una forma di presbiopia che ci porta a ignorare quell’ampia zona grigia che si stende tra “i praticanti” e “i lontani”. Parlo di quella terra di mezzo abitata dai “vicini”, persone che a un certo punto della loro esistenza sono svaniti dai banchi dell’assemblea domenicale per ritornarci solo in occasione di matrimoni e funerali. Battezzati in Cristo ed evaporati nel tempo, chi da una domenica all’altra, chi alla chetichella, diradando le apparizioni fino a scomparire del tutto dalla parrocchia. Si tratta di centinaia di amici e conoscenti, alcuni dei quali pure impegnati attivamente, animatori ed educatori. Che fine hanno fatto? Perché se ne sono andati? Che cosa non hanno più trovato nella chiesa? E adesso sono felici? Hanno trovato un senso più appagante alla loro vita?

Non so se questi ex-compagni di strada troveranno spazio nella fase narrativa del cammino sinodale, ma mi piacerebbe. Sarebbero come fari sugli scogli, ci indicherebbero i pericoli e gli ostacoli da evitare nel mare mosso. E dopo sì che potremmo prendere il cannocchiale e guardare lontano.

Saverio Catellani