Il sinodo per l’Amazzonia ha riflettuto sulla possibilità di ordinare, in quel contesto, persone sposate, riaprendo implicitamente la questione del celibato dei preti.
Su questo tema voglio esprimere, nello spirito della sinodalità che caratterizza la chiesa in questo tempo che stiamo vivendo, alcune considerazioni, chiarendo anche concetti fondamentali che l’uso di un linguaggio poco rigoroso ha resi equivoci.
Anzitutto, è necessario riconoscere che il celibato non può essere un obbligo. Nessuna legge ecclesiastica può negare un diritto naturale qual’è quello del matrimonio. Certamente, la legittima autorità della Chiesa può imporre che i sacerdoti siano scelti tra persone che hanno consacrato la propria vita nel celibato permanente. Questo, però, è un’altra cosa. In questo caso, l’ordinazione sacerdotale non impone il celibato, ma lo suppone come scelta assolutamente libera del candidato.
Quindi, il problema del celibato dei preti posto nei giusti termini è il seguente: la Chiesa ha il dovere di scegliere i propri ministri ordinati tra persone che hanno consacrato la propria vita nel celibato permanente, sempre, dovunque e in tutte le circostanze? La risposta ci è data con chiarezza dalla storia e dalla tradizione di molte chiese orientali ancor oggi. Questo obbligo la Chiesa non ce l’ha. Tra sacerdozio ministeriale e celibato non esiste nessun vincolo necessario. Ci possono essere solo ragioni di convenienza.
Questa risposta impone due considerazioni. Anzitutto, le ragioni di convenienza possono essere tali da poter imporsi al di sopra del diritto che una comunità cristiana ha di avere l’Eucarestia? In questo caso, come si può conciliare il precetto della Messa domenicale con il rispetto di una tale esigenza? Questa domanda è stata posta in termini chiari nel sinodo per la Amazzonia. Papa Francesco ha fatto capire che questo problema merita una riflessione più ampia. Anche sul ruolo che i laici devono avere nella chiesa.
La seconda questione riguarda la preparazione dei candidati al sacerdozio. Si parla sempre di vocazioni al sacerdozio: non sarebbe più corretto parlare di vocazione alla vita consacrata e di attitudine al ministero sacerdotale? Dal momento che non si può parlare di vocazione al ministero episcopale, perché si dovrebbe parlare di vocazione al sacerdozio, quando si sa che l’episcopato è la pienezza del sacerdozio? Una risposta seria a questa domanda potrebbe avere riflessi importanti nella preparazione dei candidati al sacerdozio.
Un’ultima considerazione si può fare riguardo all’abbandono del ministero sacerdotale. Si tratta di una scelta che può essere fatta per varie ragioni. Una prima causa (oggi meno frequente) può essere un discernimento vocazionale tardivo, quando molte esperienze di vita hanno permesso di conoscere meglio se stessi e portano a rivedere scelte fatte in una fase di maturità insufficiente. In questo caso si tratta di una scelta che merita rispetto.
Un’altra causa può essere un innamoramento passeggero che ha portato a generare un figlio. In questo caso, ne nascono doveri che sono superiori ai doveri del ministero sacerdotale. La chiesa che, fino a un passato molto recente, ha imposto a sacerdoti di non riconoscere il proprio figlio, ha commesso un errore di cui dovrebbe chiedere perdono. Le donne ingannate e abbandonate e i figli non riconosciuti dal loro genitore sono stati obbligati a caricarsi durante la loro vita di un peso non piccolo.
Tommaso Cavazzuti