Novissimi? Se ne parla poco

Novissimi? Se ne parla poco

Scrive Don Douglas

L’attuale Vescovo di Cesena-Sarsina, mons. Douglas Regattieri, per molti anni solerte Vicario Generale della nostra diocesi, qui sempre ricordato con riconoscente affetto, ha inviato ai suoi fedeli romagnoli la consueta Meditazione per l’Avvento, approfondendo quest’anno la scansione delle tre venute di Cristo: la prima storica in Palestina; la seconda intermedia, in cui viene continuamente nella liturgia, nella vita dei singoli e nella storia del mondo, attraverso la “potenza dello Spirito”; la terza quando verrà “nella maestà della gloria” alla fine dei tempi.

Ed è su quest’ultima che il testo, non a caso intitolato “MARANA’ THA”, l’invocazione conclusiva dell’ Apocalisse, si sofferma con particolare attenzione. Infatti chiarisce: “Lo vogliamo sottolineare, a fronte di una tendenza culturale che va sotto il nome di afasia escatologica. Non se ne parla più, i cosiddetti NOVISSIMI (morte, giudizio, inferno, paradiso), raramente sono oggetto di riflessione.” Non a caso, secondo statistiche rilevate, un terzo dei cattolici italiani non crede che vi sarà un giudizio universale.

Cita in proposito il sociologo Garelli, che ha svolto importanti ricerche sulla situazione religiosa oggi in Italia, il quale ha osservato “l’appiattirsi sulla normalità livellatrice della vita pastorale, che punta su un ritorno immediato e gratificante del credere e smarrisce la carica di profezia e di futuro, che invece si pone come dimensione costitutiva della fede cristiana e dell’annuncio della risurrezione.”

Opportunamente dunque fra gli argomenti affrontati nel ciclo interdiocesano “Credi tu questo?”, non è mancato, nello scorso gennaio, l’intervento prezioso del vescovo Erio su tale materia. In quell’occasione ricordò: “Le verità ultime non sono appendici della fede, ma ne sono i pilastri”. E’ auspicabile davvero che, anche dalle nostre parti, nel fervore dell’impegno formativo, il monito di quella sera non resti una voce isolata  nel deserto dei silenzi sui NOVISSIMI. 

In effetti si registra un’evidente divario su questi temi; da un lato la catechesi ad ogni livello, ove si preferisce puntare prevalentemente sul “Padre misericordioso” e sull’etica del “servizio” concreto nell’oggi; dall’altro  i testi liturgici (“confesso di aver molto peccato”, ”verrà a giudicare i vivi e i morti”, “credo la vita eterna”,ecc) e le formule devozionali (“preservaci dal fuoco dell’inferno” nella recita del Rosario).

Né vale giustificare tale afasia escatologica, denunciata nel 2020 anche da Brunetto Salvarani nel suo libro “dopo” , sostenendo che la formazione del credente non può più utilizzare formule catechistiche, ma un approccio fondato sulla Parola. Non si capisce infatti perché papa Francesco abbia riconfermato cinque anni fa il ruolo del Catechismo della Chiesa Cattolica, richiesto dopo il Concilio dal Sinodo dei Vescovi, e promulgato nel 1992 da Giovanni Paolo II, se questo testo “dottrinale” non fosse da tener presente assiduamente nella prassi pastorale. Né per altro gli scritti neotestamentari mancano di espliciti e forti riferimenti ai NOVISSIMI; basti pensare alle parole di Gesù: “vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”; “E se ne andranno, questi al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna”; ”In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”.

Perché questa ritrosia della Chiesa a parlare delle “cose ultime”? Un’afasia apparsa evidente, come ha scritto il vescovo di Novara, mons. Brambilla, proprio nei momenti più tragici della recente pandemia. Due possono essere le ragioni,  secondo  don Douglas: il desiderio di “prendere le distanze da una predicazione immaginifica e terroristica” e “la difficoltà di trovare linguaggi adeguati per parlare dei misteri dell’aldilà”. Quest’ultima motivazione pare particolarmente decisiva, dato il clima culturale di questo tempo, segnato da una visione  dell’uomo e del mondo di ordine tecnico-scientifico, chiusa ad ogni trascendenza. Si tratta di orizzonti alternativi , obiettivamente non componibili modificando solo i linguaggi.

 Il problema è che, se si attenua la tensione che scaturisce dalla “speranza” ultraterrena, può indebolirsi pure la passione per la costruzione della città dell’uomo, oggi così raccomandata dal Magistero. Deprivato della carica profetica, il “fare” del cristiano non solo rischia  l’afasia nell’annuncio, priorità del suo impegno di testimonianza nel mondo, ma può compromettere la stessa fecondità nell’impegno socio-caritativo.

Forse non ha tutti i torti il mio amico prete, già rettore del seminario e direttore dell’ufficio liturgico nella sua diocesi, ora pastore di cinque parrocchie sulle montagne piemontesi. Nell’ultima newsletter scrive con il suo solito ruvido stile: “Se la Chiesa vuole migliorare l’esistenza umana sulla crosta terreste, deve allungare lo sguardo e tornare a dire che il nostro vivere su detta crosta è fragile e provvisorio, e deve essere gestito in prospettiva escatologica, ossia in funzione dell’eternità nella sua angosciante ambivalenza paradiso/inferno. E’ solo la consapevolezza di questa alternativa che può rendere migliori gli uomini.”

Pier Giuseppe Levoni