Meglio pochi ma devoti o rischiare il mare aperto?

Mare aperto

Una sfida per il Sinodo: tornare a navigare in mare aperto, avere il coraggio di abbandonare i porti rassicuranti della tradizione e della devozione popolare per rispondere di sì alla domanda di Gesù: “ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”

Sono capitato su Facebook sulla pagina di un noto sacerdote lombardo, scrittore, blogger e opinionista, che ogni mattina chiede ai suoi follower le intenzioni per la Messa e ogni volta gli rispondono in circa quindicimila. Una manifestazione di fede eloquente. Tuttavia confesso di provare un leggero senso di disagio. Forse per via di quel passo del Vangelo di Matteo: “Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.”

Mi domando quale idea di relazione con Dio li spinga a condividere le intenzioni su Facebook. Forse ritengono di essere esauditi con più efficacia o rapidità se c’è l’intercessione mediatica di un sacerdote stimato? Oppure si tratta di un tentativo del tipo: “proviamo anche questa, tanto male non fa” prima di passare su un’altra pagina, magari di cui neppure si conosce l’autore, e postare un amen?

Ho la sensazione che incoraggiare queste pratiche devozionali “che male non fanno” alla lunga un po’ di male alla nostra religione potrebbero davvero farlo, perché tendono ad allontanare, senza clamore, tutti coloro che pensano che la fede cristiana si stia riducendo a un catalogo di pratiche irragionevoli.

Le analisi sociologiche evidenziano una rapida secolarizzazione della società occidentale, particolarmente accentuata tra le classi più colte e avanzate. Oggi nella letteratura, nel cinema, nelle arti e nel mainstream in generale, la religione è sostanzialmente ignorata, come se non riguardasse più l’essere umano oppure, se c’è, è ridotta a una rappresentazione macchiettistica. Un aspetto del tutto nuovo rispetto ai secoli passati, dove magari era aspramente criticata, ma riconosciuta nella sua essenza e riusciva a legare insieme regnanti e contadini, intellettuali e commercianti, teologi e popolani. Negli Stati Uniti di fine Ottocento, i cattolici irlandesi inorridivano davanti alle pratiche degli immigrati siciliani, con le loro invocazioni urlate e le processioni con le statue dei santi e tuttavia si riconoscevano nella stessa fede. Oggi invece chi si trova a disagio preferisce abbandonare, senza chiasso né polemiche.

La Cei guidata dal card. Ruini aveva letto bene il fenomeno della marginalizzazione della religione che si andava estendendo a macchia d’olio tra coloro che non si accontentavano delle risposte codificate nei catechismi e aveva ideato il Progetto Culturale. Tuttavia, l’attuazione si era rivelata inefficace, perché tentava di imporre la propria visione in contrapposizione a un’altra, definita relativista, senza punti di incontro né di confronto.

Gli appelli del Papa per una “Chiesa in uscita” si scontrano ancora con la sindrome della “cittadella assediata” che attanaglia da almeno vent’anni tanti uomini di chiesa e che si traduce in una silenziosa rinuncia al confronto con le sfide del mondo moderno (in special modo quando sono coinvolte scelte che toccano la sfera dello sviluppo tecnologico e della medicina) e nella ritirata nella trincea dei canoni rassicuranti della tradizione.

Tuttavia, se la Chiesa rifiuta di sfidare il mare aperto, preferendo i “pochi, ma devoti” a una faticosa ricerca di senso, l’effetto sarà quello di perdere, come sta già avvenendo, la parte di popolo più istruita e aperta intellettualmente, i tanti che si trovano a disagio davanti a pratiche, dogmi e riti che affondano la loro ragion d’essere nella società e nella visione del mondo dei secoli passati. E, come ci insegna la Storia, persi loro, gli altri seguiranno.

Un timore già presente in Gesù, come racconta l’evangelista Luca: “ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”

Saverio Catellani