LA  FEDE  SENZA  LA   RAGIONE E’ CIECA

La Fede senza la Ragione è cieca

GLI  SCIENZIATI  NON  SPIEGANO IL  PERCHE’

Le ricerche sull’incredulità diffusa nelle giovani generazioni rivelano che essa è basata soprattuto sulla convinzione che scienza e fede non siano conciliabili, e che solo la prima spieghi la realtà delle cose. Ogni altra visione sarebbe solo frutto della fantasia o della paura, cioè della fragilità emotiva degli esseri umani. Insomma, al di fuori di quella scientifica, nessuna verità sarebbe fondata. Per contrastare tale vero e proprio neodogmatismo, non pare possa bastare la pur fondamentale “narrazione” biblica, privilegiata nella formazione religiosa, degli ultimi decenni. Cerchiamo allora di vedere se quell’ assunto sia criticamente sostenibile.

“Dimostrare razionalmente, scientificamente, che Dio c’è o che Dio non c’è non è possibile”. Questa affermazione della celebre astrofisica Margherita Hack è ambigua. Certamente non è possibile dimostrarlo “scientificamente”, per il fatto che la “scienza” come è intesa oggi si basa su dati empirici, ossia su dati di natura sensibile. La ragione, però, si pone e risponde a domande che non sono soltanto di natura empirica.

Si tratta di domande come: Chi sono io?  Perché esisto? Perché l’uomo si fa delle domande e gli altri esseri no? Come si spiega il desiderio di eternità?  Le domande si fanno perché c’è la possibilità di una risposta; in caso contrario non avrebbero senso.  Ebbene, a queste domande nessuno risponde in base a una esperienza di natura puramente sensibile. Non c’è dubbio che ogni conoscenza certa deve basarsi sulla esperienza. L’esperienza dell’uomo, però, è duplice: c’è l’esperienza esteriore che si fa con i sensi, ma c’è anche l’esperienza interiore: quella con cui io colgo il mio io e tutti i miei atti come appartenenti al mio io.

 Questa esperienza interiore consiste nella presenza del soggetto a se stesso. Una presenza esclusiva di chi è soggetto e non puramente “oggetto”. La differenza tra soggetto e oggetto non è frutto di una dimostrazione, ma è un dato indiscutibile della nostra esperienza primordiale. Quella esperienza per cui ci facciamo delle domande e siamo capaci di riflettere. La nostra soggettività è dimostrata anche dal fatto che quando noi siamo considerati o trattati come oggetti ci sentiamo offesi, proprio perché ci sentiamo spogliati della nostra vera natura.

La stessa cosa si verifica nella prova dell’immortalità dell’anima. Anteriore alla prova filosofica, c’è una conoscenza istintiva, inerente alla coscienza che il soggetto ha di se stesso. Nella sua autocoscienza l’uomo percepisce il proprio io come un centro che trascende tutti i fatti e i fenomeni psichici che si riferiscono a lui, e persino il tempo. Per cui, non ha coscienza che, in quanto  io cosciente, sia votato alla morte. Al contrario, egli si percepisce come un essere non soggetto al tempo che, come tale, nel suo esistere non può lasciare di esistere.

 Le verità più fondamentali sono conosciute ancor prima di essere pensate. Proprio per questo, tali verità, indispensabili perché la nostra fede possa essere un ossequio razionale a Dio, sono conosciute anche da chi non è filosofo di professione. Tuttavia, una filosofia che sia l’esplicitazione delle verità fondamentali presenti nell’esperienza vissuta di ognuno di noi, è indispensabile quando si desidera una comprensione maggiore della fede, ossia quando si fa teologia. In questo senso, la teologia ha bisogno della filosofia.

Tra ragione e fede c’è una distinzione essenziale, ma non separazione. C’è distinzione perché la fede supera le possibilità della ragione;   ma non c’è separazione, perché la fede e la ragione hanno per oggetto la verità, che nella sua pienezza è una sola.  Ciò significa che la ragione e la fede hanno un campo di conoscenze distinto ma non separato. La ragione può penetrare nel campo delle conoscenze della fede, mossa dalla sua inclinazione a vedere e a perscrutare, dal suo desiderio di scoprire l’ordine interno della verità e dalla sua aspirazione a una conoscenza e a una sapienza sempre più perfette. È quello che si verifica nella teologia. A sua volta la fede può entrare nel campo della ragione offrendole l’aiuto che deriva da una luce e da una verità più piena, che possono potenziare la ragione ed elevarla.  Ed è quello che si verifica nel caso della filosofia cristiana.  

La teologia è lo sforzo che la ragione compie per comprendere un poco i misteri della fede. In questo impegno il teologo dispone di due mezzi: la luce che proviene dalle stesse verità rivelate e la luce che deriva dalla ragione e dalle verità che essa è in grado di elaborare, ossia dalla filosofia.

La teologia ha bisogno di una filosofia. Non solo per chiarire i “preamboli della fede”, ma anche per comprendere nella misura del possibile le stesse verità di fede. Negare la necessità della ragione nella comprensione della fede, implicherebbe cadere in un fideismo che sarebbe la negazione stessa della fede in senso vero. Come dicevano gli scolastici, “è necessario capire per credere”. Intelligo ut credam.

La filosofia, però, serve alla teologia solo nella misura in cui è espressione di verità. Per questo, non qualsiasi filosofia serve alla teologia. La filosofia che serve può essere soltanto una filosofia dell’essere, una filosofia che esplicita il contenuto dell’esperienza più fondamentale dell’uomo. Questa filosofia, da una parte esclude ogni forma di empirismo e di positivismo, incapaci di cogliere l’intelligibilità e la verità delle cose, e dall’altra parte esclude qualsiasi forma di soggettivismo e di idealismo che riducono la verità a una pura costruzione dello spirito umano.

Di quanto detto, proprio in riferimento alla formazione delle giovani generazioni, sarebbe opportuno tenere in debito conto, nel percorso di studio dei futuri presbiteri, nella catechesi ordinaria e particolarmente  nell’insegnamento della religione negli istituti superiori. A  partire dall’ambito diocesano.

Tommaso Cavazzuti

Pier Giuseppe Levoni