“Uno come è lo conosci sulla strada. Lui camminava su sabbie di strada, ai suoi piedi non rosso di tappeti in attesa, né la vita imprigionata nell’immobilità delle cerimonie, ma la vita, con l’odore della vita.”
Angelo Casati, Il racconto e la strada, Centro Ambrosiano, Milano 2011, p. 8.
Con la data del 1° ottobre 2019 – memoria di Santa Teresa del Bambino Gesù e del Santo Volto – è stata resa nota la Lettera pastorale al popolo di Dio della Chiesa di Carpi firmata dal vescovo Erio Castellucci, dalla scorsa fine di giugno amministratore apostolico della diocesi carpigiana. Non è scontato che in una situazione del genere ci si impegni a offrire un testo così articolato e pensato, per cui in primo luogo credo occorra essere grati a don Erio per questo dono, da assumere come bussola orientativa, in chiave personale oltre che ecclesiale. Il titolo della Lettera è “E camminava con loro”, tratto dalla vicenda dei due discepoli di Emmaus che il Vangelo di Luca descrive al capitolo 24, dal versetto 13 al versetto 35. Obiettivo di queste note è di chiosare questo documento, con alcune sottolineature personali, sperando servano in primo luogo a spingere alla lettura diretta di essa (reperibile sul sito della Diocesi: https://diocesicarpi.it/e-camminava-con-loro/), anche in considerazione della particolare situazione in cui versa la nostra chiesa locale.
Sinodalità e dialogo
Ovviamente, il titolo di un testo ne è sempre una chiave di lettura privilegiata. Il riferimento al cammino appare dunque non soltanto altamente evocativo sul piano simbolico (negli Atti degli apostoli i discepoli di Gesù sono spesso definiti quelli della via: 9,2; 16,17; 18,25-26; 19,9.23; 22,4; 24,14.22), ma anche cogente rispetto a una precisa idea di Chiesa (che del resto l’autore, sin dalle prime interviste rilasciate in questo suo nuovo ruolo, ha inteso rendere nota). L’esperienza del camminare, infatti, come la Lettera rimarca esplicitamente, rimanda a quella della sinodalità: syn/odos, in greco, è il camminare con, il camminare insieme. Un’espressione che, da una parte, per chi ha una certa età, non può non richiamare il titolo di un’altra Lettera pastorale, quella dell’allora arcivescovo di Torino, Michele Pellegrino, uscita l’8 dicembre 1971 e dedicata ai problemi del rapporto fra la Chiesa e i poveri, soprattutto il mondo del lavoro, un testo che fece epoca e riavviò quel dialogo che il Vaticano II incoraggiava a tutti i livelli; e dall’altra, rinvia con ogni evidenza a un tratto caratteristico e costante dell’azione pastorale di papa Francesco. Che vi ricorre con estrema frequenza, riferendosi sia all’urgenza di un impegno diretto sul versante ecumenico, fronte ai suoi occhi decisivo per rendere credibile qualsiasi annuncio evangelico oggi, sia allo stile da adottare nelle relazioni interne alla Chiesa stessa. Don Erio riprende un intervento papale del 17 ottobre 2015 (“Il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”), e tiene chiaramente quale sfondo integratore quella che lo stesso Bergoglio ha indicato come il programma del suo pontificato, l’esortazione Evangelii gaudium, in cui la sottolineatura sulla necessità del camminare insieme è insistita quanto strategica. Ad esempio, al n.238: “L’evangelizzazione implica anche un cammino di dialogo. Per la Chiesa, in questo tempo ci sono in modo particolare tre ambiti di dialogo nei quali deve essere presente, per adempiere un servizio in favore del pieno sviluppo dell’essere umano e perseguire il bene comune: il dialogo con gli Stati, con la società – che comprende il dialogo con le culture e le scienze – e quello con altri credenti che non fanno parte della Chiesa cattolica. In tutti i casi ‘la Chiesa parla a partire da quella luce che le offre la fede’, apporta la sua esperienza di duemila anni e conserva sempre nella memoria le vite e le sofferenze degli esseri umani. Questo va al di là della ragione umana, ma ha anche un significato che può arricchire quelli che non credono e invita la ragione ad ampliare le sue prospettive”. Sinodalità e dialogo, dunque, si richiamano a vicenda. Operazione, beninteso, per nulla agevole, va ammesso: questi sono tempi in cui è più facile dividere, rompere, cercare di distinguersi a ogni costo, più che unire, dialogare, ascoltare. A una seconda, e conseguente, chiave di lettura ha alluso Castellucci lo scorso 5 ottobre, quando nel Duomo cittadino ha presentato la Lettera in questione, riandando alla visita del papa a Carpi del 2 aprile 2017 a un lustro dal terremoto del maggio 2012, e riprendendo un passaggio dell’omelia di quel giorno, dedicata al vangelo giovanneo della risurrezione di Lazzaro (Gv 11,11-44): attorno al sepolcro di Lazzaro avviene un grande incontro/scontro, da una parte la delusione più cocente, dall’altra la speranza. Tradotto: dobbiamo scegliere, se stare dalla parte del sepolcro oppure dalla parte di Gesù. Tutto qui…
L’uomo che cammina
Mi permetto una digressione, per mettere ancor più in luce l’importanza dell’esperienza gesuana del camminare. Nei vangeli, l’azione che Gesù compie maggiormente, e non è un dato ovvio, è proprio quella di camminare. Lo ha colto bene uno scrittore francese, Christian Bobin, che ha intitolato L’uomo che cammina un suo meraviglioso libretto dedicato a Gesù: “Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli è vietato”… E ancora: “Se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più di un vento di sabbia. Che vivere è come il suo cammino: senza fine. L’uomo che cammina è quel folle che pensa che si possa assaporare una vita così abbondante da inghiottire perfino la morte”. Il camminare presuppone un andare. E l’andare di Gesù è sempre verso qualcuno cui offrirsi e da ascoltare. L’altro è una porta da aprire attraverso un volto, uno sguardo da pari a pari, un contatto visivo o tattile…
Gesù viaggia, soprattutto nel piccolo microcosmo della Galilea, anche se per un caso fortuito che sarà riletto alla luce della parola profetica (Mt 2, 5-6, che rilancia Michea 5,1) nasce altrove, in Giudea, a Betlemme, ed è costretto con la sua famiglia a migrare, scendendo in Egitto e ripercorrendo così le strade del patriarca Giuseppe e di Mosè. Si sposta anche verso il Nord, verso la Siria e la Fenicia, si reca inoltre nella Decapoli, terre di diaspora ebraica, mentre nei vangeli non ci sono tracce di suoi tragitti verso ovest, verso il mare Mediterraneo, né verso Seforis e Tiberiade, i centri principali della Galilea (la seconda è la capitale del regno di Erode Antipa). Discende poi lungo il Giordano, fino quasi al Mar Morto; e sale a Gerusalemme, lungo una via notoriamente infestata dai briganti. Si muoverà attorno e dentro la città santa, e nel tempio, nel quale compirà gesti inauditi (rovesciare i tavoli dei cambiavalute significa che il denaro del tempio, e quindi le offerte e sacrifici fatti con esso, non hanno più effetto, che il tempio è finito). Alla fine del suo viaggio terreno, muore. La mèta del suo viaggio è un luogo che è un non-luogo. È fuori dalla città; è sospeso tra cielo e terra; il suo supplizio indica che lui è rigettato dal consorzio umano e maledetto da Dio… Ma anche dopo la sua morte, e dopo l’esperienza della sua risurrezione, si direbbe non perda quel vizio: anche l’incontro con i due discepoli di Emmaus è segnato dal camminare. Anzi, evidenzia don Erio, qui Gesù accetta di prendere il passo dei due interlocutori, non perde tempo a convincerli a fermarsi o a tornare indietro, ma neppure impone loro il ritmo della marcia. Piuttosto, cammina con loro. Scrive il vescovo: “Assume il passo dei delusi, degli scoraggiati, di quelli che si sentono traditi e presi in giro, dei dubbiosi, di chi sente di avere sbagliato nella vita. Gesù nel Vangelo non impone mai un passo, ma si affianca sempre al passo dell’uomo”.
La santità della porta accanto
La Lettera pastorale è suddivisa in tre parti. La prima si intitola Gesù cammina con noi chiamandoci alla santità della porta accanto (espressione tratta dall’esortazione di papa Francesco Gaudete et exsultate, del 2018, ai nn.6-7). Il vescovo non lo cita espressamente, ma leggendo questa parte mi è venuto subito in mente un teologo francese, Christoph Theobald, che nella sua proposta teologica parla spesso di una santità ospitale. Una santità che, spiega lui, è una tematica fondamentale nell’insieme delle Scritture. La si trova all’inizio della Bibbia, se si pensa alle figure di Abramo e di Sara nel libro della Genesi (l’incontro ospitale con i tre uomini misteriosi del capitolo 18). All’altro capo della Scrittura, nella Lettera agli Ebrei, si ritrova di nuovo la stessa tematica, con una frase magnifica: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Eb 13,2),con un’allusione alla ben nota scena di Abramo. La santità ospitale, poi, caratterizza costantemente la figura di Gesù, l’essere ospitale per eccellenza. La sua ospitalità è radicale, al punto che egli si annulla per permettere all’altro di trovare la propria identità: “La tua fede ti ha salvata” (Le 7,50; 8,48…). Quando si reca alla tavola di Simone il fariseo (Lc 7,36-50), si tratta per lui fin da subito di un’ospitalità aperta. Nelle scene evangeliche, quasi mai Gesù si trova in un faccia a faccia. Sempre interviene un terzo: in casa di Simone, è la donna che sopraggiunge e gli bagna i piedi con le sue lacrime e li asciuga con i suoi capelli… In definitiva, qual è la posta in gioco di questa ospitalità? È la rivelazione di ciò che la tradizione biblica chiama fede. Non ancora una fede esplicita in Dio, ma la fede come espressione ultima dell’essere umano, quell’atto fondamentale, del tutto elementare, che scommette sulla vita. Ne vale la pena, c’è di mezzo la vita; essa manterrà la promessa. Nessuno di noi ha scelto di esistere, siamo stati tutti messi al mondo, e ciascuno deve riconciliarsi con il fatto di esistere in certe condizioni precise, di tipo sociale, culturale, nazionale, religioso, politico, con i loro limiti terribili: le disuguaglianze di ogni sorta, i confronti che esse producono, le immagini altrui che ci aggrediscono, e via dicendo. L’ospitalità è, allora, il luogo della riconciliazione con se stessi. E nessuno può farlo al posto di un altro. Ecco dunque il miracolo della reciprocità. Un essere ospitale può generare in me questo atto di fede: la mia esistenza vale la pena di essere vissuta… La Lettera pastorale ricorre a una bella immagine, per dire i riflessi di questa esperienza sulla Chiesa e sulla società: “Se paragoniamo la Chiesa e la società a un albero, il male assomiglia alle fronde agitate dal vento, mentre il bene è piuttosto simile alle radici: invisibili, ma decisive per la vita e la salute della pianta. Di fronte alla santità domestica, normale, umile, non abbiamo il diritto di perderci nelle accuse e nelle maldicenze, nelle vendette e nei risentimenti”. Fino a rimarcare che “esiste una rete di relazioni umane e cristiane di tale preziosità, che merita le nostre energie, senza perdere tempo negli attacchi fratricidi”. Nel presentare la Lettera, Castellucci ha ammesso di aver incontrato, nelle scorse settimane, una diocesi vivace, attenta a ciò che fa gruppo e comunione, rilanciando fra l’altro i “testimoni eccezionali” della fede sfornati nei secoli da questa chiesa locale. Possiamo a nostra volta riandare ai santi della porta accanto che abbiamo avuto la fortuna di incontrare: una memoria preziosa, da non disperdere e, anzi, da vivificare nell’oggi.
Diventare Chiesa
La seconda parte del testo ha per titolo I discepoli camminano con Gesù diventando “Chiesa”. La parola chiave, qui, è senza dubbio comunione.
Si potrebbe dire: non solo è camminando che si fa cammino (come da celebre poesia dello spagnolo Machado), ma è solo camminando che si fa Chiesa. Scrive don Erio: “I due discepoli partono da Gerusalemme come individui sconsolati e dispersi e arrivano a Emmaus come Chiesa convocata”. Anche perché, nel loro incontro con Gesù, hanno vissuto le tre esperienze costitutive della comunità cristiana: l’ascolto della parola, l’accoglienza del fratello (del forestiero, in questo e in tanti altri casi) e il gesto della frazione del pane. E’ questa quella che il papa ama chiamare Chiesa in uscita, del resto. Un’idea che si sposa perfettamente con la visione del cristianesimo suggerita, di nuovo, da Cristoph Theobald, quando riferisce della necessità di un cristianesimo come stile. Perché ciò che Gesù fa e dice nei suoi incontri è un tutt’uno con il suo essere, in lui ci sono un’assoluta unità e trasparenza di pensiero, parola e azione che sono manifestazione del Padre: una bellezza che affascina il credente e che può salvare il mondo. Dallo stile di Gesù emerge la provocazione di un cristianesimo che apprende, mentre le patologie e le infedeltà al vangelo che pervadono ogni epoca della storia ecclesiale – compresa la nostra, posta alla fine del regime di cristianità: un dato che il documento assume seriamente, come vedremo – sono leggibili come rottura della corrispondenza tra forma e contenuto. Quando prevale la forma, si ha un cristianesimo ridotto a estetismo liturgico, istituzione gerarchica, struttura dove, però, è assente la sostanza di quell’amore che porta Gesù fino alla croce. Se invece prevale il contenuto, si ha un cristianesimo ridotto a impianto dottrinale e dogmatico, verità fatta di formule cui credere, ma priva di un legame vitale con l’esistenza delle persone. Gesù, dal canto suo, indica piuttosto la strada di un cristianesimo capace di apprendimento. Crea uno spazio di libertà attorno a sé comunicando, con la sua sola presenza, una prossimità benefica a tutti quelli che incontra. Una Chiesa fedele allo stile di Gesù, perciò, non si presenta come istituzione detentrice di un sistema di dogmi da insegnare al mondo, né come societas perfecta, bensì quale spazio in cui le persone possono trovare la libertà di far emergere la presenza di Dio che già abita la loro esistenza. Ogni persona, infatti – quali che siano la sua appartenenza religiosa, il suo pensiero e la sua cultura – è portatrice di un’immagine di Dio che aspetta di schiudersi, cioè di fare proprio lo stile di Gesù: quindi i cristiani dovrebbero essere in ricerca della manifestazione divina propria di ogni religione di ogni pensiero, invece di assumere atteggiamenti di svalutazione e condanna. Del resto, “la fede matura – cito dalla Lettera un passaggio cruciale – non è la granitica rivendicazione di verità astratte, ma l’umile cammino di riconoscimento del Signore nel pane, nei fratelli, nei poveri”. Ed è, inoltre, l’intera comunità cristiana, il popolo di Dio nella varietà dei suoi carismi, ad annunciare, a celebrare e a tessere la rete della fraternità, sottolinea don Erio, mettendo in guardia – al seguito di papa Francesco – dal rischio del clericalismo, “sintomo e causa di equivoci, disagi, incomprensioni e persino abusi di potere e di coscienza nella Chiesa”. C’è molta parresìa, cioè franchezza, in parole simili: questo, peraltro, è il percorso sinodale avviato dal concilio Vaticano II, quello della Chiesa intesa come popolo di Dio in cammino nella storia (Lumen gentium). Un itinerario che ha bisogno, per tradursi nel vissuto di una chiesa locale, piccola o grande che sia, di strumenti di partecipazione e di corresponsabilità: costituire o rinnovare tali organismi è uno dei compiti primari che si pone il vescovo Erio nell’anno pastorale che va a iniziare.
Verso Gerusalemme
La terza parte si intitola I discepoli camminano verso Gerusalemme per testimoniare il Risorto, e s’incentra sulla parola chiave missione (che, stando alla sintesi offerta dall’autore il 5 ottobre, consisterebbe in primo luogo nel portare la bellezza del Vangelo nelle nostre rispettive città). Essa prende le mosse dalla scomparsa di Gesù dalla vista dei due discepoli di Emmaus, evento che – evidenzia la Lettera – avrebbe potuto provocare in loro la tentazione (ricorrente nelle nostre chiese, aggiungo io) di lamentarsi, rimpiangere il buon tempo andato, recriminare sulle occasioni perdute. E invece, essi ripigliano la strada, facendo a ritroso gli undici chilometri che li separano dalla città santa. A nulla vale la presumibile loro stanchezza, di fronte alla prospettiva di recarsi a incontrare gli apostoli per narrare quanto loro accaduto. La scomparsa di Gesù, secondo don Erio, ha un’eminente funzione pedagogica. Evita il rischio di volersi creare un cerchio magico, o di restare bloccati per ammirare il loro eroe. Il quale, piuttosto, vuole farne dei missionari, degli evangelizzatori. Sono solo due, ma il numero non conta, nel Vangelo; per essere “sale” e “luce”, è più che sufficiente. Due elementi, fra l’altro, che compiono il loro servizio sciogliendosi nelle pietanze e dando colore alle cose. Nel testo si richiama, opportunamente, il fatto che nel settembre 2009, durante il viaggio in aereo da Roma a Praga per la visita nella Repubblica Ceca, papa Benedetto XVI pronunciò parole non nuove per lui, ma certo significative: “Direi che normalmente sono le minoranze creative che determinano il futuro, e in questo senso la chiesa cattolica deve comprendersi come minoranza creativa che ha un’eredità di valori che non sono cose del passato, ma sono una realtà molto viva ed attuale”. E già nel 1997, l’allora cardinal Ratzinger, alludendo probabilmente al concetto di Arnold Toynbee per cui, nelle fasi di svolta, sono le minoranze creative a orientare la società tutta, sosteneva che “la statistica non è uno dei criteri di Dio”, aggiungendo che occorrerà abituarsi sempre più a una “Chiesa di minoranza”, costituita da “piccoli gruppi di persone veramente convinte e credenti e che agiscono di conseguenza”. Un piccolo gregge. Chiosa don Erio: non siamo chiamati a diventare una minoranza aggressiva, quasi fossimo perennemente circondati da nemici e dovessimo difenderci aggredendo, finendo con assumere il paradigma dell’arroganza, così diffuso nel dibattito pubblico e nelle relazioni quotidiane. Ma neppure una minoranza remissiva, fino a nascondere la fede e la visione dell’uomo e del mondo che ne deriva. Ammettere di essere oggi una minoranza non dovrebbe spingerci a lamentarci perché non siamo più maggioranza, ma piuttosto dovremmo accettarlo come un dato di fatto; anzi, da qui occorre ripartire per trasformare questo apparente deficit in un’opportunità per una presenza più dinamica, missionaria ed evangelica. Per essere davvero minoranza creativa, siamo chiamati, piuttosto, a individuare i nuovi cammini attraverso i quali il Vangelo di Gesù morto e risorto possa diventare un regalo – don Erio usa proprio, significativamente, questo termine, un regalo – per l’umanità di oggi. E per farlo, bisogna trovare l’energia per amare, impegnarsi, collaborare al bene comune insieme a tutti gli altri cittadini: un’energia che può derivarci soltanto, chiudendo il cerchio, nell’affidamento totale a Gesù. Operando, in particolare, con uno stile che si può esprimere in tutti i capitoli della dottrina sociale e dell’antropologia cristiana: vita, famiglia, educazione, pace, giustizia, rispetto del creato… Certo, si tratta di temi sui quali, anche tra cattolici, spesso ci si divide: ecco perché, conclude il vescovo, vale la pena di mettere a punto in modo sinodale uno stile evangelico, non per giungere a un pensiero unico, ma per arrivare alla possibilità di un confronto sereno e argomentato dentro la comunità cristiana e la comunità civile. Cosa che, mi pare, rimanda alla necessità urgente di un investimento importante su un reale cammino di conversione, sulla fede: solo così potrà manifestarsi la forza di Dio nella Chiesa. E solo così potremo essere indotti a una riscoperta dell’essenziale, e divenire in grado di esprimere in modo rinnovato le ragioni per cui la narrazione di Dio fatta da Gesù può essere – ancor oggi – un regalo grande alla Chiesa e al mondo intero.
Una Chiesa umanizzata
Qualche anno fa, il vescovo francese di Poitiers, Albert Rouet, autore del bestseller La chance di un cristianesimo fragile, di fronte a una domanda di un giornalista che gli chiedeva cosa la Chiesa dovrebbe fare a suo parere per poter essere meglio accolta nell’attuale congiuntura culturale, espose con parresìa il suo sogno: “Rispondo alla domanda con un’utopia. Vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver bisogno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle. Desidererei una Chiesa che si metta al livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi”. Una Chiesa umana e umanizzata, insomma; quella che papa Francesco ci mostra tutti i giorni con la sua vita e le sue parole; quella che prese forma, per la prima volta e in modo inatteso, duemila anni fa nei dintorni di Emmaus.
Brunetto Salvarani