Scrive Don Erio
“Il contagio della fede nella Chiesa che verrà” : questo il sottotitolo dell’ultimo libro del nostro Vescovo. Si tratta di un agile ma esauriente compendio della linea pastorale rigorosamente legata alle tesi dell’ Evangelii Gaudium di papa Bergoglio, condito ed attualizzato da considerazioni sugli effetti anche ecclesiali della pandemia. Diciamo subito che questa rapida ma succosa ipotesi sul futuro del cristianesimo si legge con piacere per la chiarezza espositiva e l’amabilità del tono comunicativo che sempre contraddistingue il nostro Pastore.
Il testo illustra nella prima parte la perenne condizione di crisi della Chiesa nella sua storia bimillenaria: dal tradimento di Giuda e dalle diatribe fra le prime comunità apostoliche fino alla situazione odierna con gli scandali emersi e lo smarrimento progressivo del gregge, specie nell’area euro-nordamericana. E ricorda le tre grandi riforme del secondo millennio in risposta ad altrettante crisi: quella istituzionale di Gregorio VII, quella dottrinale del Concilio di Trento e quella pastorale del Vaticano II. E proprio la sua capacità di riformarsi e di sempre rifiorire dimostra l’assistenza perenne dello Spirito vivificatore, secondo la promessa di Cristo.
Nella seconda parte don Erio approfondisce cause e caratteristiche della crisi del nostro tempo, provocata sostanzialmente dal tramonto della cristianità, “ossia quel sistema che, nel bene e nel male, aveva creato un’alleanza istituzionale fra Chiesa e società, tra cristianesimo e cultura, tra religione evangelica e religione civile”. Al crollo di tale sistema i padri conciliari del Vaticano II hanno reagito rifiutando “un approccio nostalgico, teso a condannare in blocco il mondo e a contrapporvi una presunta solidità della Chiesa, e ne adottarono uno più umile, meno trionfalistico e capace di raccordarsi con il mondo dall’interno, non dall’alto.” Si tratta, scrive don Erio, di un vero e proprio cambio di paradigma: “La Chiesa non solo dà al mondo, ma pure riceve da esso”, con la conseguente “adozione di un atteggiamento diaconale, cioè di servizio, piuttosto che paternalistico o addirittura padronale”.
Questa scelta di radicale rottura col passato di impronta tridentina ha come cifra programmatica il “ritorno al Vangelo puro e semplice”, dando spazio prioritario alla “ storia di Gesù, per cogliere proprio nella sua umanità il luogo della rivelazione divina”. In concreto ciò significa, esplicita mons. Castellucci, “giocare su un campo in passato praticato prevalentemente da protestanti e modernisti, rimettere in primo piano la dinamica dell’annuncio rispetto alla statica della dottrina.”
Nella Conclusione il vescovo, con un richiamo alla temperie dell’attuale pandemia, gioca sulla diade conteggio-contagio, invitando a non privilegiare, nella valutazione delle prospettive e degli esiti della pastorale, il criterio quantitativo, il successo misurabile, giacché, nella logica evangelica del seme di senape che cresce, “il processo richiede tempo, non va d’accordo con l’impazienza.” E ancora: “La Chiesa non cresce a forza di numeri,…la fede si trasmette per attrazione.” In altri termini il cristiano si deve chiedere: “Come posso farmi contagiare dalla gioia del Vangelo, per essere contento e poi, a mia volta, contagioso?” Dunque è oggi il tempo di “una Chiesa che valorizza le relazioni prima che l’organizzazione, la fraternità prima che l’autorità, l’ascolto prima che l’insegnamento, la testimonianza prima che i conteggi.”
Del resto, a parere di don Erio, una certa “irrilevanza” fa parte del dna della comunità voluta da Gesù, che ha invitato i discepoli ad essere sale e luce, due elementi che “non attirano a se stessi, ma compiono la loro missione dando risalto ad altro e quasi scomparendo.” Argomentazione questa che dimostra come dalla Scrittura si possano trarre indicazioni opposte, giacché da sempre abbiamo sentito citare l’esortazione evangelica a non accendere una lucerna per poi metterla sotto il moggio. Di qui anche la difficoltà di chiarire la problematica presenza dei cristiani in politica, un terreno dove,almeno in democrazia, “contare”, non solo qualitativamente, è determinante.
Il nostro Vescovo in proposito scrive: “Se in Italia i cattolici, pur nella necessaria diversità degli accenti, riuscissero ad essere meno divisi tra loro, meno schierati fra progressisti e conservatori, meno barricati sui fronti della destra e della sinistra, e più concordi con il Vangelo e la tradizione viva della Chiesa, avrebbero maggior rilevanza: non quella compattata in un partito politico unico e nemmeno in un’opzione culturale uniforme, ma quella ispirata a una fede comune dalle espressioni differenti, preoccupata di vivere e testimoniare quei valori che hanno dato nella storia e danno tuttora un apporto umanizzante”. Auspicio condivisibile, se pur piuttosto generico, e tuttavia di assai ardua concreta attuazione, quando le opzioni culturali divergono, come attesta l’attuale irrilevanza pubblica dei cattolici.
Ma sono tante le questioni trattate nel libro che possono stimolare la discussione e il confronto nella comunità ecclesiale, provocando un serio discernimento, soprattutto per evitare fraintendimenti e banalizzazioni che creano sconcerto nel Popolo di Dio. Si pensi solo alla mai sopita diatriba sull’interpretazione dei documenti conciliari (tanto prolissi da consentire non di rado opinioni divergenti), al “come” reagire agli effetti della fine della cristianità (Chiesa Ospedale da campo o Madre Maestra?), al rapporto Scrittura-Dottrinanella prassi pastorale. Senza trascurare la difficoltà di distinguere ciò che è vivo e ciò che è morto della Tradizione. E si potrebbe continuare. Materia incandescente su cui ogni semplificazione, ogni apriorismo finisce per provocare perplessità non solo fra i fedeli, ma pure fra presbiteri e vescovi.
Questi brevi cenni spero invitino molti a leggere il libro del nostro Pastore. Ognuno ne trarrà frutto, condivida o meno, in tutto o in parte, il contenuto. Per quanto mi riguarda: benedire la crisi come opportunità di nuovo slancio missionario è sacrosanto; se però si erige a criterio-guida permanente l’incertezza, nella teologia, nella dottrina come nella pastorale, la costruzione di un non meglio precisato nuovo umanesimo sarà complicata, rendendo più difficile che il piccolo seme produca un grande albero , o almeno che la minoranza si qualifichi realmente come “creativa”.
Pier Giuseppe Levoni